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Fidarsi della promessa di Dio anche quando la vita sembra sfidare la sua affidabilità.

A13-tNella prima lettura, dal libro dei Re, abbiamo letto una (piccola) parte di un bellissimo racconto che parla di un bel ‘miracolo’ del profeta Eliseo.


La liturgia ci ha fatto ascoltare la prima parte di questa storia.

Il profeta passava frequentemente per un villaggio, Sunem. Qui, una «illustre donna», una sunnamita, di cui non sappiamo il nome, aveva cominciato ad ospitarlo nella sua casa per pranzo: il profeta «si fermava a mangiare da lei».

All’inizio né la donna né il marito sapevano chi fosse quell’uomo. Il testo non dice nulla su questi pranzi. Non dice che cosa si siano detti questi protagonisti né di che cosa abbiano parlato. Però, alla fine, questa donna – con intuito tutto femminile – dice al marito: «Io so che è un uomo di Dio, un santo, colui che passa sempre da noi». Lentamente, ospitando un uomo, questa ‘donna illustre’ ha scoperto in lui non un uomo qualunque, ma «un uomo di Dio, un santo».

È bella questa scoperta! Ed è bello che dietro la scoperta ci sia un dono. Con il suo atto di ospitalità, all’improvviso, questa donna scopre che il dono più grande lei non lo aveva fatto, dato, ma lo aveva ricevuto.

Non succede così, tante volte, anche a noi?

Quante volte, mentre ci sembra di fare un atto di generosità, di accoglienza, di ospitalità, scopriamo che, in realtà, abbiamo ricevuto molto più di quanto ci sembrava di aver donato?

Così, sempre con il suo formidabile intuito e sguardo profondo, questa donna fa un passo in più. Propone al marito di costruire «una piccola stanza», al piano di sopra, «in muratura», una stanza ‘stabile’, non provvisoria, per dare ospitalità anche di notte all’uomo di Dio: «mettiamoci un letto, un tavolo, una sedia e un candeliere; così, venendo da noi, vi si potrà ritirare».

Qui davvero l’ospitalità di questa donna non ha calcoli. Semplicemente è attenta alle necessità dell’altro. È un esempio luminoso anche, e soprattutto, per noi oggi.

Così accadde.

Il profeta Eliseo, con il suo servo Giezi, accetta volentieri questa ospitalità.

In modo un po’ più disteso di quanto abbiamo ascoltato nel racconto di oggi, il testo dice che il profeta pian piano decide di ‘ricompensare’ il dono di questa donna. E finisce per chiedere al suo servo: «Che cosa si può fare per lei?».

In un primo tempo Eliseo aveva pensato di raccomandare questa donna presso la corte del re o del comandante dell’esercito, per ricompensarla per la sua premura. Ma la donna, candidamente gli aveva risposto di vivere ‘tranquilla’ così. Non aveva bisogno d’altro.

È il servo che fa notare al profeta: «Purtroppo essa non ha un figlio e suo marito è vecchio».

È un’idea fulminea. In un attimo Eliseo ha deciso «Chiamala!». Senza domandarle nulla, annuncia alla donna: «L’anno prossimo, in questa stessa stagione, tu stringerai un figlio tra le tue braccia». Una promessa, questa, che ricorda quella dei ‘tre angeli di Dio’’ ad Abramo, alle querce di Mamre.

La prima lettura oggi, si ferma qui. Ma il racconto biblico prosegue in modo altamente drammatico.

In effetti la promessa del profeta si compì davvero. La donna partorì. Il bambino crebbe finché un giorno, all’improvviso, si ammalò e nel giro di poche ore morì tra le braccia della madre.

Questa donna, quando il profeta le aveva promesso il figlio, in modo provocatorio, gli aveva detto: «No, mio Signore, uomo di Dio, non mentire con la tua serva». Forse perché non voleva alcuna ricompensa, forse perché davvero non credeva che Dio le avrebbe potuto fare un dono così grande da lei tanto atteso e desiderato.

E ora questo bambino le veniva crudamente strappato dalle mani.

Quante volte succede così anche a noi. Quante volte, con angoscia, con rabbia, domandiamo a Dio: “Perché mi hai tolto quello che mi avevi donato?”.

Quante volte i doni di Dio ci appaiono intermittenti. Prima il Signore ce li dona – così ci appare – e poi ce li toglie.

Ma la risposta di questa donna è assolutamente sorprendente.

Non accetta la morte di questo suo figlio. Lo corica sul letto del profeta, nella stanza superiore. E poi va da lui, fino al monte Carmelo, il luogo dove egli stava, solo con Dio.

Qui c’è un dialogo bellissimo, ricco di colpi di scena, tra il profeta e la donna.

Il profeta le dà il suo bastone e le dice di andare, con il suo servo, e le assicura che il bambino sarebbe guarito.

Ma la donna non ci sta. È una madre forte, decisa. Vuole, esige, pretende, che il profeta venga da lei di persona. Così il profeta accetta. Obbedisce all’amore, alla fede di questa donna coraggiosa e incrollabile.

Alla fine, Eliseo torna alla casa dove era stato tante volte ospitato. Rimane solo con il ragazzo morto. Prega il Signore con tutte le sue forze.

Allora il Signore lo esaudisce.

Il bambino ritorna alla vita. Il profeta lo ‘ridona’ alla madre che si prostra a terra dinanzi a lui, grata e riconoscente.

Questa bellissima storia ci permette di comprendere le parole che Gesù, nel Vangelo di oggi, rivolge agli apostoli, al termine del discorso missionario. Sono molto belle e forti, queste parole di Gesù!

Nella prima parte di questo Vangelo, addirittura, queste parole potrebbero scandalizzarci: «chi ama padre o madre più di me non è degno di me», e analogamente: «chi ama figlio o figlia più di me non è degno di me». Ma non lasciamoci confondere. Non fraintendiamo le parole della Sapienza.

Gesù non vuole stabilire una ‘graduatoria’ tra sé e i nostri affetti più cari, come se l’amore per lui dovesse mettersi in concorrenza con le persone cui siamo più legati, padre, madre, figlio, figlia … Gesù non fa paragoni.

Chiede semplicemente che, per ciascuno di noi, lui sia l’assoluto. Non il primo fra tanti. Tutto. L’assoluto.

Una pretesa radicale. Una pretesa che può essere solo di Dio.

Così Gesù chiede a ciascuno di noi di seguirlo, fino in fondo.

Lui è giunto fino alla croce, cioè fino a donare la vita per coloro che lo rifiutavano, morendo per il loro rifiuto. Così chiede a noi di seguirlo, senza condizioni, fino in fondo.

Ci chiede di essere disposti perfino a perdere la nostra vita, per causa sua.

Ci chiede di riconoscere in lui il tesoro più prezioso, ciò per cui vale la pena di sacrificare tutto il resto e di perdere perfino noi stessi e la nostra stessa vita: «Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà».

Insieme a questo fortissimo comandamento: “Seguimi fino in fondo, fino a perdere la tua vita”, Gesù formula una promessa: “quello che perdi lo ritroverai, se ti fidi di me”.

In fondo non è quello che è accaduto alla sunnamita con l’uomo di Dio? Lei è andata fino in fondo nel suo dono e, alla fine, dopo averlo perso lo ritrova al di là di ogni speranza!

Dio è fedele e sovrabbondante, nella sua grazia.

Domandiamoci con semplicità: davvero questa è la ‘legge’ della mia vita?

Davvero io mi fido della promessa di Dio, senza condizioni, anche quando le evidenze della vita sembrano negare la sua affidabilità?

Quante volte ci sembra che i drammi della vita smentiscano la promessa di Dio, i suoi doni?

Davvero possiamo ancora sperare in lui?

Le ultime parole di Gesù ci tracciano una piccola via, un piccolo cammino per la nostra fede nella sua promessa, nella sua ricompensa.

Gesù ci chiede di accoglierci gli uni gli altri e ci assicura che chi accoglie l’altro accoglie lui, e chi accoglie lui accoglie Dio, il Padre che lo ha mandato.

L’ultimo esempio, dopo il profeta e il giusto, è quello dei piccoli: dare anche a uno solo «di questi piccoli» un «bicchiere d’acqua fresca», questo gesto così piccolo e apparentemente insignificante, è invece un dono straordinario che non «perderà la sua ricompensa».

Un «bicchiere d’acqua» donato a un «piccolo», un discepolo, è come un atto d’amore per Dio.

A suo modo – come non lo sappiamo – Dio riconoscerà in questo gesto un dono fatto a lui, per amore e non ci lascerà a mani vuote: ci riempirà dei suoi doni, ci riempirà di sé.

don Maurizio



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