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Chiamati ad «essere partecipi della promessa» di Dio, in Gesù.

Con una parola potente che sembra una scultura di Michelangelo, dice il profeta Isaia, nella prima lettura: «Cammineranno le genti alla tua luce, i re allo splendore del tuo sorgere».


È una parola che, in sintesi, quasi in miniatura, dice il senso della solennità odierna, l’Epifania.

È la festa in cui il Signore si manifesta come luce che sorge, da oriente, una luce che diventa guida per il cammino di tutta l’umanità.

È quello che il profeta vede accadere per Gerusalemme: mentre la «nebbia fitta» e «la tenebra» ricoprono tutta la terra, invece sulla città santa risplende la gloria del Signore.

Perciò Gerusalemme diventa meta non solo per coloro che sono nell’esilio, lontano dalla patria, ma anche per «la ricchezza delle genti».

È uno sguardo bellissimo, carico di riconciliazione e di pace, di speranza, di luce.

L’apostolo Paolo ritorna su questo pensiero scrivendo, nella seconda lettura, agli Efesini: egli parla di un mistero che, per «rivelazione», gli è stato rivelato, e non solo a lui, ma agli apostoli e ai profeti, dunque a tutta la Chiesa, i discepoli di Gesù.

È una parola bellissima, che dice il ‘destino’ e la chiamata dell’umanità intera: «le genti sono chiamate, in Cristo Gesù, a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del Vangelo».

È come a dire che il Vangelo è una promessa, una promessa di grazia, a cui sono chiamate a partecipare tutte le genti, tutta l’umanità.

Quando Paolo parlava di questo, i cristiani erano pochissimi, se facciamo le proporzioni con i popoli di allora. Oggi, sulla terra, i cristiani sono molti di più. Siamo circa un miliardo, ma siamo divisi tra noi e non siamo nemmeno la religione più diffusa. Anzi, siamo in calo dal punto di vista dei numeri. Addirittura siamo in continua diminuzione.

Molti tra noi, molti cristiani sembrano piuttosto ‘freddi’ nei confronti della loro Chiesa.

Molti di noi, quando parlano della Chiesa, è come se parlassero di una ‘istituzione’ che non li riguarda oppure di una realtà di cui condividono solo alcune idee, alcune convinzioni, ma per molte cose si sentono distanti.

Molti oggi sentono la Chiesa, specie tra i giovani, come una istituzione ingombrante, che quasi quasi li allontana da Dio e da Gesù.

Altri, invece, specialmente tra le persone più anziane, la Chiesa la percepiscono come a rischio di cedimento, di annacquamento del Vangelo.

Al di là di tutto questo, dobbiamo di nuovo, sempre daccapo, ‘convergere’ su Gesù, lasciarci attrarre dalla sua luce, dalla sua grazia.

Non importa – o meglio non ci deve assolutamente scoraggiare – se i numeri sono in diminuzione. La Chiesa è il segno del Regno. La Chiesa è la comunità di coloro che testimoniano un dono e un destino che è più grande della Chiesa stessa.

La Chiesa oggi, come ai tempi di Paolo, è il segno della chiamata che è rivolta a tutta l’umanità: «essere partecipi della … promessa» di Dio, in Gesù, diventare un solo corpo, «condividere la stessa eredità».

Questa promessa, questa eredità cui tutti gli uomini sono chiamati a partecipare è la grazia di Dio, «in Cristo Gesù», dice ancora Paolo.

Ecco, questo sguardo così largo, luminoso, aperto, pieno di speranza, è quello cui ci invita il Vangelo di oggi.

È il famosissimo racconto di questi Magi, questi uomini saggi, che scrutavano il cielo per comprendere la terra.

La tradizione poi li ha chiamati Re – i re Magi – e li ha fatto diventare tre collegandoli ai tre doni che questi uomini, venuti da Oriente, portano al bambino Gesù: «oro, incenso e mirra», tre doni che richiamano la profezia di Isaia, che vede Gerusalemme invasa «da uno stuolo di cammelli» e «di dromedari» – così noi raffiguriamo i Magi, in cammino da oriente – che vengono da tutte le parti del mondo «portando oro e incenso e proclamando le glorie del Signore».

Sullo sfondo di questa profezia di Isaia, il Vangelo di Matteo racconta questo affascinante episodio dei Magi.

Arrivano a Gerusalemme da Oriente e portano una domanda: parlano di un bambino, appena nato, e lo chiamano «il re dei Giudei».

Dicono di aver visto «spuntare la sua stella» e quindi di essere «venuti ad adorarlo».

La stella, i Magi, con tutto l’apparato che li accompagna, tutto questo è diventato parte integrante dei nostri presepi. È il Natale di Gesù che qui, per la prima volta, viene chiamato «re dei Giudei», il ‘titolo’ che verrà poi scritto sulla croce di Gesù!

Alla domanda dei Magi, dice il racconto di Matteo, «il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme». Qui già si anticipa il rifiuto di Gerusalemme, anche se con toni, per ora, solo allusivi.

Il re Erode, una specie di ‘fantoccio’ che i romani permettevano ai Giudei, per dare loro l’illusione di una certa autonomia politica, questo ‘re’ si agita, si turba.

Sappiamo bene poi che cosa produrrà questo turbamento: la strage dei bambini dei dintorni di Gerusalemme!

Ma anche tutta la città si mette in fermento.

Da subito, la presenza di Gesù diventa un segno di contraddizione, fa nascere tanti interrogativi e anche tante preoccupazioni.

Il re, allora, convoca «tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo», i capi del servizio al tempio e gli esperti della Legge/Scrittura, e da loro si informa «sul luogo in cui doveva nascere il Cristo».

Questa gente, che conosceva bene la Scrittura, gli dà la giusta risposta: il Cristo, il Messia, doveva nascere a Betlemme di Giudea.

A quel punto cambia la strategia di Erode.

Questo re tiranno finge d’essere interessato da questa notizia, in senso buono. Dice addirittura di volerlo adorare, questo bambino nato da poco.

Ai Magi chiede di andare, di «informarsi accuratamente» su questo bambino, per poi fargli sapere, quando lo avranno trovato, dov’è: «fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo».

Queste parole sono una menzogna clamorosa. Noi lo sappiamo, ma i Magi no.

La menzogna è proprio questo: una parola che sembra vera e per questo facilmente inganna chi la ascolta.

Questa menzogna nasce dalla paura.

Erode si sente minacciato da questo piccolo bambino. Ha paura che venga a togliergli il suo ‘regno’, il suo potere, la sua gloria, la sua forza, i suoi (piccoli) privilegi.

Erode ha paura di Gesù. È questa, una vera contraddizione: un bimbo piccolo, indifeso, fa tanta paura a un uomo apparentemente tanto potente e forte.

Si può avere paura di Gesù. Chi sta nelle tenebre ha paura della luce.

Non comprende che la luce viene per lui, come grazia, speranza, appello alla conversione.

Allora i Magi si mettono nuovamente in cammino.

Questi Magi sono simbolo di tutta l’umanità che, vista la luce di Gesù, si muove alla ricerca di Lui.

Anche questo è bello: è la luce (una stella del cielo) che li ha fatti muovere. Dio si rivela a noi in molti modi e, ultimamente, con immensa luce, proprio in Gesù.

A questa umanità in ricerca, in cammino, si rivolge la luce di Gesù.

Il cammino richiede fatica. Il cammino chiede di lasciare le proprie sicurezze, aprirsi a nuovi orizzonti, dirigersi verso una speranza più grande.

«Ed ecco, la stella … li precedeva, finché giunse e si fermò …».

La luce si ferma sulla ‘casa’ dove si trova il bambino Gesù, con la sua mamma.

Il racconto sottolinea «la gioia grandissima» dei Magi, quando vedono la stella. È la direzione giusta. Il lungo cammino sta per trovare il suo compimento.

La descrizione dell’incontro tra i Magi e Gesù, con sua madre, è conosciuto.

Tutta la scena si svolge in silenzio, in adorazione silenziosa: «si prostrarono e lo adorarono». È la saggezza che riconosce in Gesù la luce, la sapienza di Dio.

I doni che offrono a questo bimbo, sono il segno della sua identità.

Questo piccolo è re, sacerdote, Crocifisso risorto.

Luce!

don Maurizio



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