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Come rispondere al lamento, alla sofferenza, al dolore? Quando la ‘salvezza’ è qualcosa di più della ‘guarigione’.

Le parole di Giobbe, nella prima lettura, sono molto dure. Sono un grido di dolore, una protesta, un lamento rivolto direttamente a Dio.


Tante volte noi cristiani siamo stati educati a dire che la sofferenza è volontà di Dio, che dobbiamo accettarla dalle sue mani e altre cose del genere … Se ascoltassimo con attenzione le parole di Giobbe rimarremmo scandalizzati!

Giobbe non accetta affatto il suo dolore. Si lamenta e protesta.

Certo, lo fa dinnanzi a Dio. Chiede conto a Lui del perché. Non accetta le ‘spiegazioni’ a buon mercato che gli vorrebbero fornire i suoi cosiddetti amici. Persone insopportabili che gli fanno delle ‘bellissime prediche’.

Sono insopportabili a Giobbe perché questa gente pretende di spiegare a lui, mentre soffre, quale sarebbe il senso del suo dolore.

In effetti, l’uomo è tra i viventi il più coraggioso. È disposto a ‘sopportare’ il dolore, addirittura ad affrontarlo, se ne ha un perché.

Ecco, proprio questo manca a Giobbe e ai tanti ‘Giobbe’ che ci sono sulla terra.

Ascoltiamo, dunque, con em-patia le dure parole del suo lamento. Non abbiamo paura di riconoscerci in esse. Non abbiamo paura di rivolgerle anche noi a Dio … queste, e altre simili.

Giobbe dice che la vita dell’uomo «sulla terra» è come «un duro servizio», come la vita di un «mercenario, come quella di uno «schiavo»: «così a me sono toccati mesi d’illusione e notti di affanno mi sono state assegnate».

«Mesi d’illusione e notti di affanno». È un’accusa durissima.

Giobbe è come schiacciato. Anche lui ha avuto tanti desideri, anche lui ha cullato tanti sogni. Ma ora tutto questo gli sembra un’illusione, una promessa tradita, una speranza che svanisce nel nulla.

Ecco, questo è una ‘illusione’.

A questo si aggiunge l’affanno, l’ansia, l’esperienza di essere come ‘braccato’ dal male, dal dolore. È la sensazione di non avere scampo, di essere perseguitato, minacciato quasi sommerso, al punto di volere morire.

Giobbe descrive molto bene questa situazione di oppressione: «Se mi corico dico: “Quando mi alzerò?”». Quando va a letto, in cerca di un po’ di riposo, non trova pace e pensa solo al momento in cui si potrà alzare e la notte, finalmente, potrà avere fine.

E aggiunge: «La notte si fa lunga e sono stanco di rigirarmi fino all’alba».

È così quando l’uomo sta male: la notte non finisce mai, è come un incubo terribile. Ci si gira e rigira nel letto, finché arriva la luce … ma quando ci si alza si è più stanchi di quando ci si è coricati.

Così – dice Giobbe nelle parole del suo lamento – i giorni passano veloci, scorrono e scivolano via, uno dietro l’altro, «svaniscono senza un filo di speranza».

Giobbe non sa più che cosa sia speranza.

La vita gli appare come un «soffio» destinato a svanire, inconcludente.

«ll mio occhio non rivedrà più il bene» Giobbe ha perduto la speranza di un po’ di bene. Non sa più che cosa sia il bene. L’ha perduto. Gli è stato rubato. La fatica, il dolore, l’affanno, l’illusione gli tolgono il fiato, il respiro si fa affannoso.

Ha paura. Tutto gli appare un inganno, un’illusione.

Giobbe dà voce al dolore dell’umanità con una franchezza che ci sconvolge.

Come rispondere a questo grido?

Come rispondiamo noi al lamento dell’altro che soffre, a cui vogliamo bene?

Come rispondiamo noi al nostro stesso dolore?

Come rispondo a Dio?

È qui che dobbiamo ascoltare il Vangelo, per non far dire a Dio quello che vorremmo noi.

Gesù non ha dato una risposta ‘teorica’ a queste terribili domande che affliggono l’umanità.

Il Vangelo dice che, uscendo dalla sinagoga di Cafarnao, in compagnia dei quattro primi suoi discepoli, Gesù va alla casa di Simone e di Andrea, che erano fratelli.

«La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei». Simone era sposato e la sua suocera era malata.

Il Vangelo di Marco è molto sobrio. Non dice nulla della sua malattia. Parla solo della sua febbre.

Non dice nulla, il vangelo, del ‘mondo’ di questa donna. Ma noi sappiamo che ogni malato è un ‘mondo’, perché porta con sé un vissuto di dolore unico, a volte terribile, proprio come quello di Giobbe.

Sempre in modo molto sobrio, il Vangelo dice che Gesù «si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano».

Non dice una parola, Gesù. La sua è una risposta pratica.

Si avvicina a questa donna malata. Le si fa prossimo. La prende per mano. Le fa sentire che le è vicino. La tocca senza paura. Tocca e si lascia toccare. Le fa sentire la forza della sua mano.

È la mano di Dio.

Così, Lui la fa alzare: cioè, non solo la rimette in piedi, ma ancor più la solleva dalla sua prostrazione, dalla sua debolezza.

Il Vangelo, nel verbo ‘alzare’ allude alla resurrezione dalla morte. La guarigione è un segno che anticipa la resurrezione, quella di Gesù e quella che, per grazia, egli dona a tutti coloro che si affidano a Lui.

La guarigione è un segno, nel corpo, che però dice qualcosa di più grande.

La guarigione è la carne della salvezza, perché annuncia, nel concreto della vita, il dono di una speranza oltre la morte, in una comunione definitiva con l’amore grazioso di Dio.

Ma la salvezza è qualcosa di più della guarigione.

Questa, la guarigione, potrebbe anche non arrivare. Ma colui che dona la salvezza salva, e può salvare, anche coloro che non vengono guariti!

Il Vangelo continua dicendo che: «la febbre la lasciò ed ella li serviva».

Qui c’è, senza parole, uno ‘schizzo’ che descrive in modo stupefacente la risposta di colui che ha fatto esperienza del dono di Dio, che è la salvezza che qui è annunciata nella guarigione.

Questa donna, guarita, si mette a servire.

Così, semplicemente, si fa testimone di quella grazia che ha ricevuto. Non si mette a servire perché le è stato comandato. Solo, non può fare altrimenti.

Il servizio di questa donna scaturisce dalla gratitudine. È gratitudine.

Il vangelo poi prosegue allargando l’orizzonte, ma senza perdere l’intensità del vissuto personale.

Alla sera del sabato, dopo il tramonto, nella notte, tutta la città di Cafarnao si raduna davanti alla porta, nella piazza. A Gesù portano «tutti i malati e gli indemoniati». Lui guarisce i «molti» che gli vengono portati.

Certo, Gesù non ha guarito tutta l’umanità. Il dolore, la malattia, la sofferenza accompagna ancora la vita.

Ma in questo ‘molti’ Gesù ci rivela una speranza che è per tutti.

Nel racconto del Vangelo, poi, sono solo i demoni che sanno chi è Lui. C’è ancora il rischio di fraintendere la sua opera di ‘guaritore’. C’è il rischio di ridurlo, nel caso migliore, a ‘medico’ di molti.

Gesù si sottrae, cercando, nella notte, il dialogo con il Padre.

Quando lo trovano, vorrebbero trattenerlo.

Ma Lui si sottrae.

Deve portare ovunque il Vangelo di Dio, in Galilea, poi a Gerusalemme e poi, attraverso noi, sua Chiesa, al mondo intero, a tutta l’umanità.

Accogliamo questo suo dono e diventiamo suoi testimoni!

don Maurizio



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