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Confidare nel Signore Gesù.

La riflessione di don Maurizio Chiodi prende spunto dalle letture proposte dalla liturgia per la VI domenica del tempo ordinario (17/2/19): dal Vangelo secondo Luca (Lc 6,17.20-26), dai brani tratti dal libro del profeta Geremia (Ger 17,5-8) e dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi (1Cor 15,12.16-20).

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La Parola di Dio che abbiamo proclamato in questa domenica è un richiamo prezioso per la nostra fede. L’apostolo Paolo, nella seconda lettura, ci annuncia il centro del Vangelo: «se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede». E noi non avremmo più alcuna ragione di speranza.

Ecco, questo è il succo della nostra fede: a motivo di Gesù, morto e risorto, noi crediamo che la morte non è l’ultima parola della nostra vita. La morte è una ‘soglia’, che chiude i nostri giorni, ma ci apre ad una vita di speranza, alla comunione con il Signore Gesù, nella luce di Dio.

Noi cristiani, nonostante tutto, nonostante le difficoltà, le fatiche, nonostante le opposizioni e le resistenze, nonostante le nostre infedeltà, ambiguità e incertezze, non possiamo mai perdere la speranza.

La ‘fonte’ di questa nostra speranza è nel Signore, non in noi stessi, nelle nostre forze, nel nostro impegno. Certo, questo non può mancare, ma è sempre la risposta ad un dono di cui non siamo noi la sorgente!

È proprio questo che ci ricorda la prima lettura, dal profeta Geremia.

Con belle parole molto forti, il profeta pronuncia una maledizione e una benedizione: «Maledetto l’uomo che confida nell’uomo» … «Benedetto l’uomo che confida nel Signore». Attenzione, però, con queste parole Geremia non vuole mettere nessuna opposizione tra Dio e l’uomo, come se fosse benedetto chi confida nel Signore e maledetto chi ha relazioni di fiducia negli altri.

Il profeta non ci chiede affatto di diventare sospettosi e seminatori di rancore, di discordie, di divisioni. «Maledetto», nelle parole di Geremia, è chi «pone nella carne il suo sostegno» e cioè chi dimentica il Signore, puntando tutto su di sé, sulle proprie forze e non fidandosi nemmeno degli altri. «Maledetto» lo è non perché Dio si scateni contro di lui per punirlo, ma perché lui stesso, in questo modo, si condanna ad una vita infelice, una vita di isolamento, una vita ‘povera’, dura e ingrata.

Chi, invece, «confida nel Signore», dice il profeta, avrà una vita ’benedetta’. Geremia propone un’immagine molto bella: chi si fida di Dio sarà «come un albero piantato lungo un corso d’acqua», le sue radici si stenderanno «verso la corrente» e così non soffrirà la siccità «quando viene il caldo», le sue foglie saranno sempre verdi, e non cesserà «di produrre frutti» nemmeno nel tempo della siccità.

Ecco, chi ha fede sa ‘resistere’, non perché lui è un testardo o un ottimista staccato dalla realtà, ma perché attinge la sua fede e la sua speranza nella grazia del Signore.

In fondo, questo è lo splendido, meraviglioso frutto delle beatitudini, nel Vangelo di Luca.

Queste sono un po’ meno famose di quelle di Matteo. Sono più brevi. Gesù, dice l’evangelista, le avrebbe pronunciate non dalla ‘montagna’, ma «in un luogo pianeggiante», già in cammino verso Gerusalemme.

Il Vangelo di Luca ha un altro ‘disegno narrativo’, rispetto a quello di Matteo, e quindi immagina una ‘cornice’ diversa per queste meravigliose parole di Gesù.

Ancora, le beatitudini si accompagnano a dei ‘guai’, a una ‘minaccia’, un ammonimento, molto forte. C’è qui una decisa contrapposizione tra il ‘beati voi’ e il ‘guai a voi’, un po’ come Geremia che opponeva il ‘benedetto’ a il ‘maledetto’.

Questa parola richiede a noi una decisione forte.

Da che parte vogliamo stare: dalla parte di ‘beati voi’ o dalla parte del ‘guai a voi’?

Ma che cosa significa scegliere tra queste due alternative? Chi, tra di noi, chi, tra gli uomini, non vorrebbe essere beato, felice? Chi è beato? Questa è la domanda fondamentale.

Le parole di Gesù ci annunciano che ‘beato’ non è chi confida in se stesso, nelle sue ricchezze, nei beni che possiede. Questi possono svanire da un momento all’altro e, di fatto, sarà così per tutti, nel momento della nostra morte.

Beato è colui che, nella povertà o nella ricchezza, sa gustare ciò che ha come ‘segno’ rivelatore di una bontà, di una grazia che è più grande dei suoi beni e che i suoi ‘beni’ gli rivelano.

Beato non è colui che è ‘sazio’ di tutto ciò che possiede, perché si illuderebbe di bastare a se stesso.

Beato è colui che, nella fame, tiene viva la fame di Dio.

Beato è colui che, quando è sazio, non dimentica la fame della Parola di Dio. Beato non è chi insegue, nella sua vita, il riso, nascondendo a sé il dolore e il pianto.

Beato è, invece, chi nel pianto, il suo e degli altri, invoca e attende un dono, una grazia, una presenza che lo sollevi, nel dolore e nella gioia, verso una speranza di cui non è lui l’origine.

Beato non è chi insegue la ‘buona fama’, perché tutti gli altri dicano sempre bene di lui. Vivrebbe schiavo del suo narcisismo.

È beato chi spende la sua vita «a causa del Figlio dell’uomo», fidandosi e fondandosi su Gesù, la sua Parola, la sua grazia, la sua Presenza.

don Maurizio



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