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Dio non viene per condannare, ma per salvare.

Anche in questa quarta domenica di Quaresima, la Parola di Dio ci chiede di ‘sostare’, di riflettere e di meditare sulla fedeltà di Dio all’alleanza. Nonostante gli sconvolgimenti e i ‘rovesci’ della storia umana, c’è un filo d’oro che la percorre e traccia per tutti noi un sentiero di speranza, fino a giungere a Gesù.


Paolo agli Efesini, in una bellissima sintesi, dice: «per grazia siete salvati». E poi lo ripete: «per grazia infatti siete salvati mediante la fede».

Questo «per grazia» significa semplicemente ‘per dono’.

Ancora Paolo: «e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio».

Questo dono trova la sua realizzazione compiuta in Cristo Gesù: è in Lui che, come dice ancora la seconda lettura, Dio ha mostrato «la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi».

Siamo salvati per grazia, non per le nostre opere, per i nostri sforzi, per i nostri meriti che non ci sono, davanti a Dio.

Sant’Agostino dice che ‘quando Dio premia i nostri meriti, corona i suoi doni’.

Dunque, tutto è dono, tutto è grazia.

Questa è la prima ‘opera’ dell’uomo: riconoscere che noi siamo anticipati, sorpresi, preceduti da una grazia, da un amore gratuito.

Nessuno può vantarsi di nulla, davanti a Dio: la grazia non «viene dalle opere» – sennò, che grazia sarebbe? – «perché nessuno possa vantarsene».

Eppure questo non significa affatto che le nostre opere non siano importanti! Al contrario.

Le nostre opere sono decisive, perché sono le opere della fede. Il nostro agire risponde alla grazia ed è solo grazie alla nostra responsabilità che il dono di Dio accade davvero nella storia del mondo.

Ma se noi rifiutiamo la grazia, la grazia dell’alleanza, allora perdiamo tutto.

È proprio quello che racconta, nella prima lettura, il secondo libro delle Cronache.

Questa pagina dice, in estrema sintesi, il dramma della storia di Israele.

Ricordate come la scorsa domenica avevamo ascoltato, nel racconto dell’Esodo, delle ‘dieci parole’, queste tavole dell’alleanza, sulle quali il popolo, giunto ai piedi della santa montagna, il Sinai, aveva accolto la grazia dell’alleanza e lì aveva assunto come impegno queste ‘dieci parole’ bellissime?

Ecco, le Cronache ci raccontano che cosa accadde dopo: «tutti i capi di Giuda, i sacerdoti e il popolo moltiplicarono le loro infedeltà».

È detto, qui, in poche parole, un dramma di molti secoli.

All’alleanza di Dio, data per grazia, la libertà del popolo – tutti: dai capi ai sacerdoti fino all’ultimo degli israeliti! – risponde con l’infedeltà. Tradisce. Promette e viene meno. Non corrisponde.

Non è quello che facciamo anche noi oggi? Non siamo certo migliori dei nostri padri.

Dicono le Cronache che gli israeliti: «contaminarono il tempio, che il Signore si era consacrato a Gerusalemme».

Il tempio, che era il luogo della Presenza, era diventato altro: altri idoli, oppure anche un luogo di mercato, come diceva Gesù la scorsa domenica, nel Vangelo di Giovanni. Il rapporto con Dio era diventato uno scambio, un dare per avere, non un luogo e un «tempo di grazia».

Le Cronache però dicono che Dio non si rassegna a questo ‘abominio’: «mandò premurosamente e incessantemente i suoi messaggeri ad ammonirli».  È bella questa espressione: «premurosamente e incessantemente».

Con tanta cura, con tanta premura, Dio ha a cuore il suo popolo e lo fa con insistenza, senza arrendersi. Manda i suoi messaggeri, coloro che parlano in suo nome, i profeti, per ammonire, per ricordare, per incoraggiare, per stimolare, Niente! Tutto ciò non ottenne nulla!

Al contrario: «essi si beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti».

Si sono fatti beffa di Dio, hanno disprezzato le sue parole, non ne hanno apprezzato la bellezza, hanno preso in giro e schernito i profeti.

Così hanno firmato la loro rovina!

«Al punto che l’ira del Signore contro il suo popolo raggiunse il culmine, senza più rimedio». Questo è un passaggio delicato. L’autore sacro parla dall’ira del Signore.

Questo significa che Dio si è arrabbiato e ha deciso di distruggerli, rinnegando la sua alleanza, data per grazia?

Attribuendo a Dio il sentimento dell’ira, un sentimento molto umano, queste parole dicono con grande forza il suo sdegno: Dio non può sopportare il male! Dio desidera che la sua grazia, la sua alleanza, non vada perduta. Non può rimanere impassibile al rifiuto!

Quello che accade, quindi, non è un castigo di Dio, ma è il frutto delle scelte di Israele: il rifiuto dell’alleanza porta il popolo a perderla, con le sue stesse mani.

Il tempio viene distrutto, demolite le mura di Gerusalemme, incendiati i palazzi, distrutti tutti gli oggetti preziosi.

Israele tocca il fondo.

Questo significa allontanarsi dalla grazia dell’alleanza!

Quelli che sopravvivono alla strage vengono deportati in Babilonia, diventano schiavi, in terra straniera. Hanno perduto tutto.

Si attua così, dicono le Cronache, quello che «la parola del Signore» aveva detto «per bocca di Geremia». Sono ancora i profeti che, nella deriva e nel disastro, tengono alta la tensione.

La tragedia avrà un termine.

Il libro delle Cronache racconta un episodio importante della storia di Israele e lo rilegge alla luce di Dio. Ciro, re dei Persiani, scrive un decreto con cui concede di ricostruire il tempio di Gerusalemme e agli esuli di tornare in patria.

È un segno di grazia. Dio è fedele alla sua alleanza, non viene meno. Nella storia ne possiamo riconoscere i segni preziosi.

Questo accade anche oggi. Anche per noi sta accadendo qualcosa di analogo.

Certo, i templi non vengono distrutti, almeno qui, in Italia, in occidente, ma sono vuoti, si svuotano, sempre di più. Siamo in netta minoranza, anche nel nostro paese. Eppure …

Alla desolazione, che è il frutto della nostra infedeltà, Dio risponde rilanciando.

Il Vangelo racconta il culmine di quest’opera di grazia: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito».

Ecco che cosa ha fatto Dio alla ‘fine’, al culmine della storia: ha dato il Figlio, per noi, per grazia. Lo ha consegnato nelle nostre mani. Ci ha donato se stesso. Perché, dice Giovanni, Dio «non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui». Ecco il Vangelo: non per condannare, viene Dio, ma per salvare.

Gesù stesso, poco prima, dice che: «come Mosè innalzò il serpente nel deserto», quando l’accampamento di Israele era stato assalito da serpenti velenosi che portavano morte e il Signore Dio aveva salvato tutti coloro che si erano fidati della sua parola, «così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo».

Gesù è stato innalzato sulla croce, segno di odio e di condanna, ma proprio lì, in quell’abisso, si manifesta tutta l’altezza della grazia di Dio: «perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna».

Anche oggi, chi non crede perde la grazia; si sottrae alla luce, perché preferisce le tenebre dove si illude di poter continuare a fare il male.

Ma chi crede, viene nella luce, accoglie la grazia e vive nella luce!

don Maurizio



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