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Gesù se ne va, ma questo non significa che ci abbandoni: noi parliamo di Lui come il Presente di Dio.

via verità vitaMancano oramai due settimane alla solennità dell’Ascensione, anche se liturgicamente sarebbero solo poco più di dieci giorni, appunto quaranta dopo la Pasqua! Per questo il Vangelo di Giovanni, oggi, insiste sul fatto che Gesù se ne va, ci lascia, anche se questo non significa affatto che ci abbandoni, al contrario!


Gesù se ne va, ma rimane la Chiesa, rimaniamo noi, suoi discepoli, che testimoniano Lui agli uomini di oggi.

Lo vedremo nella prima lettura, che descrive con poche pennellate il dono e il compito della Chiesa nella storia del mondo.

Nel Vangelo di Giovanni, all’inizio del capitolo quattordici, durante l’Ultima Cena di Gesù, subito dopo lo splendido gesto profetico della lavanda dei piedi ai discepoli, Gesù annuncia che uno di loro lo tradirà e poi annuncia loro che egli se ne va, in un luogo dove loro non possono andare.

Pietro gli risponde chiedendogli: «Signore, dove vai? ». E poi protesta con Lui, dicendo che lo vuole seguire, ora, non più tardi e si dichiara pronto a dare la sua vita per Gesù.

Ma è Gesù stesso che, con triste ironia, gli dice: “altro che dare la tua vita per me!” «Non canterà il gallo, prima che tu non mi abbia rinnegato tre volte!».

È allora che, all’inizio del capitolo quattordicesimo, che abbiamo letto oggi, Gesù dice con grande dolcezza: «Non sia turbato il vostro cuore». I discepoli saranno turbati dalla sua assenza. Saranno sconvolti e travolti dalla passione.

Questa parola però vale per tutti i discepoli anche dopo la Pasqua.

Vedete, c’è qualcosa di strano, nella testimonianza dei cristiani: noi annunciamo uno che non c’è più. Gesù è oramai ‘assente’ da questa nostra storia, dalle vicende del mondo. Eppure noi diciamo che è presente. E celebriamo nel suo nome. E parliamo di Lui come il Presente di Dio, il suo dono eternamente presente.

Eppure Lui ci manca! E, per di più, al suo posto ci siamo noi, a testimoniarlo. Ma tra noi e Lui c’è una differenza abissale.

Noi siamo i discepoli, Lui è il Maestro e il Signore. Ma è proprio Lui, il Maestro e il Signore, che vuole oggi essere presente nella e grazie alla nostra testimonianza. Questo è il dono e il dramma della Chiesa, di questa comunità di discepoli, che siamo noi, insieme tanto poveri e tanto ricchi.

È solo attraverso la fede che noi possiamo attraversare e superare il nostro turbamento: «Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me».

Gesù ci invita a non guardare troppo e subito a noi stessi. Anche adesso, che sembra lontano, ci invita ad affidarci a Lui. «Vado a prepararvi un posto», ci dice. «Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore», ci sono molti posti. Lui va a prepararci un posto in questa casa: «Quando sarò andato, …, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi».

Dunque, Gesù ci lascia, ma solo per poco, per un certo tempo, un tempo di cui noi non conosciamo la durata. Poi tornerà, perché noi possiamo stare definitivamente con Lui, nella casa del Padre.

Che fare, nel frattempo?

«Del luogo dove io vado, conoscete la via». All’obiezione di Tommaso Gesù risponde che Lui stesso è la via, per giungere al Padre, ed essere con Lui e con il Padre. Questa è la vita, la vita vera, la comunione di Gesù con il Padre: «io sono nel Padre e il Padre è in me».

La ‘via’ sta proprio in questo: conoscendo Gesù noi fin d’ora conosciamo anche il Padre. Lui è la via, il cammino, il sentiero.

Ma questa ‘via’ è già la meta. La meta sta proprio nel camminare con Gesù, nell’affidarci alla sua Parola. Questo però è difficile da comprendere e da vivere.

Uno dei discepoli, Filippo, esprime tutta questa fatica: «Signore, mostraci il Padre e ci basta».

È una parola a doppio taglio, questa.

Da una parte dice il nostro desiderio di Dio. E questa è una cosa bella. C’è in ciascuno di noi, un profondo desiderio di totalità, di pienezza, di felicità, di compimento. Desideriamo il volto di Dio, perché in un certo modo lo conosciamo, anche solo perché ci manca.

Eppure questo volto, il volto del Padre, ci sfugge. Lo desideriamo proprio perché non l’abbiamo!

C’è questa tensione in ogni uomo, anche in questo nostro tempo in cui Dio sembra ‘scomparso’ dall’orizzonte delle cose visibili.

Eppure non per questo cessiamo di desiderarlo, di parlarne!

Però le parole di Filippo, come appare nella risposta di Gesù, hanno anche un senso che è oscuro, ambiguo.

Filippo non ha compreso che, come gli dice Gesù: «chi ha visto me, ha visto il Padre».

La fede di Filippo, come – anche, sempre – la nostra fede, deve crescere e camminare: il Padre, fin d’ora, noi lo vediamo, lo incontriamo, lo ascoltiamo nelle parole e nelle opere di Gesù.

Ecco, questo è ciò che ci chiede di Gesù: credere in Lui! Allora diventeremo capaci di compiere le sue opere. Questa è la bellezza della Chiesa e di ogni discepolo: se davvero ci fidiamo di Gesù saremo capaci di compiere oggi le sue opere!

Così arriviamo alla prima lettura.

Ma anche nella seconda, Pietro dice ai cristiani che loro – noi! – sono «stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui».

Questo è proprio, anche oggi, il compito della Chiesa, nell’attesa del ritorno di Gesù: essere un popolo che dona e testimonia all’uomo di oggi le opere di Dio, «mediante Gesù Cristo.

Gli Atti descrivono un momento difficile della prima Chiesa. Questo momento, vissuto nella fede in Gesù, diventa anche un momento creativo e fecondo. Diventerà un passo avanti nella storia, per testimoniare Gesù in modo più reale, convinto ed efficace.

I discepoli di lingua greca, ebrei anch’essi di origine, si lamentano di essere trascurati. ‘Mormorano’, perché le loro vedove, i loro poveri, sono trascurati, quasi fossero di serie B.

I Dodici, gli apostoli, si accorgono che qui c’è un problema e una difficoltà obiettiva. Sono molto onesti e realisti.

Questo è un modello molto bello anche per noi. Non dobbiamo nascondere le difficoltà della Chiesa e anche delle nostre comunità.

I Dodici però vanno subito al nocciolo della questione: «Non è giusto che noi lasciamo da parte la parola di Dio per servire alle mense». Presi dalle mille necessità dei poveri, gli apostoli comprendono di non poter e non dover fare tutto. Loro si dedicheranno «alla preghiera e al servizio della Parola». Insieme, però, propongono di affidare il ‘servizio’ delle mense a sette discepoli, stimati, «pieni di Spirito e di sapienza».

La comunità accoglie con entusiasmo questa proposta. Così vengono scelti sette ‘diaconi’, perché la carità non venga meno. La Chiesa, mentre annuncia la Parola, mentre prega, non può assolutamente perdere la carità. Non sarebbe più Chiesa.

Nella Chiesa, nelle nostre comunità, dovremo mantenere questa pluralità di doni, di carismi e di ministeri.

Allora, anche oggi, come allora, le comunità torneranno a essere (sempre) più vive: «e la parola di Dio si diffondeva e il numero dei discepoli a Gerusalemme si moltiplicava grandemente». Persino molti «sacerdoti», dall’ebraismo, aderivano alla fede in Gesù.

Invochiamo per le nostre comunità, per la Chiesa di oggi, la grazia e la bellezza di questa testimonianza, nella Parola e nel servizio.

Nell’attesa della venuta e del ritorno di Gesù!

Don Maurizio



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