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La fede è affidamento alla grazia di Gesù: camminare lasciandosi illuminare, dirigere e confortare dalla sua luce.

cieconato1C’è una parola, anzi un’immagine, che sta al centro della Parola di Dio di questa giornata: è la luce. Indirettamente, ma esplicitamente, questa ci rimanda al ‘vedere’. È la luce che ci permette di vedere, se abbiamo gli occhi. È con gli occhi che noi possiamo vedere la luce, se c’è.


In modo molto particolare, la prima lettura, dal primo libro di Samuele, ci fa pensare, prima e più che ai nostri occhi, agli ‘occhi’ di Dio. A Samuele, che crede di vedere tra i figli di Iesse quello più bello e più forte e pensa: ”Certo, è questo il «consacrato» del Signore”, il Signore stesso ribalta le carte in tavola: «non conta quel che vede l’uomo» – gli dice – «infatti l’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore».

Ecco: Dio vede anche quel che è nascosto. I suoi occhi vanno nel profondo. Nessuno può mentire davanti ai suoi occhi. Non illudiamoci di poterlo ingannare, come se potessimo conquistarlo con la nostra forza. Il suo sguardo è sguardo di grazia. Così il Signore sceglie l’ultimo dei figli di Iesse, il Betlemita. Sceglie un ragazzino, quello che era nei campi «a pascolare il gregge». Con la sua luce il Signore illumina le nostre tenebre e le rende graziose.

Scrive proprio questo, a tutti noi, san Paolo nella seconda lettura: «un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore». Da qui il suo invito forte: «Comportatevi perciò come figli della luce». Il Signore ci chiede, in questo cammino verso la Pasqua, di camminare lasciandoci illuminare, dirigere e confortare dalla sua luce. Non dobbiamo, anzitutto, fare nient’altro che lasciarci illuminare, lasciarci inondare da questa luce di grazia! Non abbiamo paura di questa luce!

Paolo dice ancora: «Svégliati, tu che dormi, risorgi dai morti e Cristo ti illuminerà». 

Queste parole ci introducono chiaramente al bellissimo e straordinario vangelo di questa domenica.

Due sono i protagonisti: un uomo cieco, dalla nascita, di cui non si dice però nemmeno il nome, e Gesù, che è – e dice di sé di essere – «la luce del mondo» – … Ma il protagonista assoluto, evidentemente, è la luce di Gesù, è Gesù che è la luce.

Attorno a loro, nel racconto, che è costruito in modo sapientissimo, ci sono diversi altri personaggi, che danno molta vivacità alla narrazione: i discepoli, i vicini, i farisei, i genitori del cieco …

Tutto parte dall’incontro ‘casuale’ tra Gesù e «un uomo cieco dalla nascita». È Gesù che vede. È Gesù che sceglie. È lui che prende l’iniziativa.

I discepoli compaiono sulla scena (solo) per fargli una domanda molto rivelatrice: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?».

Sulla base del (cosiddetto) principio di retribuzione, molti in Israele pensavano che, se a uno gli capita un male o una disgrazia, è perché lui prima ha fatto qualcosa di male. Dietro a questo modo di pensare c’è anche l’idea che Dio è ‘giusto’: premia i buoni e castiga i cattivi. Per questo se a uno gli capita qualcosa di male è logica conseguenza che ha fatto qualcosa di male. Dio non ‘colpisce’, a casaccio, in modo arbitrario, ma con giustizia!

Quante volte anche noi pensiamo così! È molto facile rappresentarci un dio così, giudice e/o giustiziere. Però … questa idea si scontra con un’esperienza molto strana. Quante volte, in effetti, ci sembra che Dio sia ingiusto! Soffre molta gente innocente e a molti disonesti, sleali, criminali perfino, va tutto bene. A noi stessi, quante volte capitano disgrazie, malattie, lutti, e ci viene da dire: “ma Signore, che cosa ho fatto di male, per meritarmi tutto questo?”.

Da qui scatta la protesta, l’accusa a Dio. Qualcuno arriva a perdere la fede in Lui. Come si può credere in un dio così? Come può essere affidabile questo dio?

La risposta di Gesù alla domanda dei discepoli è perentoria: «Né lui ha peccato né i suoi genitori!».

Gesù non nega il male, non nega che quest’uomo sia cieco, ma spezza qualsiasi legame tra questa ‘malattia’, questa grave invalidità, l’essere ciechi, e la colpa. La cecità, e qualsiasi altro male (patito), non è affatto l’effetto di una colpa commessa.

Rimane allora la domanda: “e Dio che cosa c’entra, se c’entra, con tutto questo?”.

Anche qui la risposta di Gesù è perentoria. Gesù non nega il peso del dolore e della sofferenza, non pretende nemmeno di spiegarla con una bella teoria che farebbe tornare tutti i conti.

La sua è una risposta pratica. È la risposta di Dio: «è perché in lui siano manifestate le opere di Dio». Attenzione, Gesù non strumentalizza la sofferenza di quest’uomo, come se dicesse: “Dio riesce a far diventare un ‘bene’ una cosa ‘cattiva’”. Questa, alla fine, non sarebbe stata davvero una cosa dolorosa e ‘cattiva’. Gesù non ‘giustifica’ il male, in vista del bene! Tutto si fermerebbe ad una pura teoria.

Gesù risponde nella storia concreta di questi, manifestando, con il suo agire, come agisce Dio: per grazia. Così, senza che quell’uomo gli chieda nulla, con gesti molto concreti («sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse …»), lo guarisce, lo risana, sconfigge la sua cecità. Dio risponde così al male, di quest’uomo: con grazia.

Tutto questo bene non accade però senza la collaborazione, senza la risposta di quest’uomo, che pure non aveva chiesto nulla. Gesù chiede al cieco di andare a lavarsi «nella piscina di Sìloe, che significa Inviato». Non è un nome casuale. Questa piscina è simbolo di Gesù stesso, che è fonte di acqua viva e sovrabbondante. È perché va e si lava che questi «tornò che ci vedeva».

Tutto ciò che segue è un racconto che ci aiuta a comprendere più profondamente il senso di questo segno di grazia meravigliosa: «finché sono nel mondo, sono la luce del mondo».

Quella che Gesù ha compiuto è un’opera di luce, ma la sua luce è più grande di questa opera. A noi è chiesto di credere nella luce, che si manifesta nelle opere che compie. Ma non ci è chiesto di ‘usare’ Gesù per ottenere quello che vogliamo noi.

I vicini, i farisei, sottopongono questo cieco a un vero e proprio interrogatorio. I farisei, poi, lo interrogano due volte, e in più vanno a interrogare anche i suoi genitori. Vogliono le prove. Ma non sanno ‘vedere’ quello che è accaduto. Sono loro i veri ciechi.

Qui sta la loro colpa: dicono di vederci, non hanno bisogno della luce di Gesù. E perciò lo rifiutano. Qui sta il loro peccato.

Invece quest’uomo cieco è una bellissima figura.

All’inizio, nemmeno lui sa spiegare quel che è accaduto. Non sa nemmeno dov’è colui che lo ha sanato. Sa che è un «uomo che si chiama Gesù». Ma poi, più insistono per metterlo alle strette, più cresce il suo cammino verso la luce: «È un profeta!». «Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla». Ma forse il miracolo più grande è quando, dopo aver recuperato la vista, quest’uomo cieco, davanti a Gesù, in un bellissimo dialogo con Lui, grato, si affida totalmente a lui: «Credo, Signore!». «E si prostrò dinanzi a lui».

A partire dai segni, ma oltre questi segni, la fede è questo affidamento alla grazia e alla luce che è Gesù.



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