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L’attesa attiva che apre al compimento.


La riflessione di don Maurizio Chiodi prende spunto dalle letture proposte dalla liturgia per quarta domenica di Avvento (23/12/18): dal Vangelo secondo Luca (Lc 1,39-45), dai brani tratti dal libro del profeta Michèa (Mi 5,1-4a) e dalla lettera agli Ebrei (Eb 10,5-10).

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Siamo ormai nell’immediata vigilia del Natale e, nel frattempo, celebriamo la quarta domenica di Avvento. Ovviamente la Parola di Dio ci invita all’attesa.

È l’attesa del profeta Michea che, molti secoli prima di Gesù, annuncia che il Messia, «il dominatore in Israele», colui che «pascerà i suoi fratelli «con la forza del Signore» «con la maestà del nome del Signore, suo Dio», «uscirà» da Betlemme, in Giudea.

Così come Davide veniva da Betlemme, e il Signore lo aveva scelto per grazia, pur essendo egli il più piccolo tra i suoi fratelli, così la piccola Betlemme diverrà – dice il profeta – il villaggio da cui uscirà il Messia.

«Egli stesso sarà la pace!», dice ancora Michea.

La sua presenza sarà fonte di sicurezza. Non dovranno temere, non dovranno avere paura di nessuna minaccia, di nessun pericolo. Ci saranno ancora difficoltà e insidie, ma le affronteranno con fiducia, senza scoraggiarsi e senza stancarsi.

Queste parole, oggi, valgono anche per noi. Sì, perché, anche se il Messia è già venuto, anche se Gesù è già entrato nella storia dell’umanità, noi rimaniamo in attesa del suo ritorno.

Allora egli sarà davvero la nostra pace, per sempre.

Ora, in questo tempo, noi viviamo ancora le asprezze, le fatiche, le difficoltà, le paure, le ansie del cammino della vita.

La presenza di Gesù non ci evita il ‘dramma’ della vita, ma ci apre alla speranza, mentre lo attraversiamo. La nostra fede non è un talismano, un portafortuna che ci garantisce nelle prove, ma è la luce che ci dà speranza, è l’attesa che ci fa guardare con fiducia all’avvenire.

«Egli stesso sarà la pace!»: questo ci annuncia il profeta, indicandoci Gesù. A Lui ci affidiamo mentre camminiamo tra le difficoltà e le prove della vita.

Non dobbiamo mai perdere questa speranza!

Perché questa speranza non nasce da noi, ma dal dono di Dio, dalla sua presenza di grazia!

La seconda lettura, dalla lettera agli Efesini, descrive in modo bello questo dono di Gesù, il dono che è Gesù.

Riferendo a Lui le parole del salmo, l’autore della lettera dice che Dio non ha voluto offerte o sacrifici, quasi a riscattare il nostro peccato o a conquistarci la sua benevolenza con le nostre forze, ma ha «preparato un corpo» al suo Figlio. Colui che abitava nell’eternità di Dio si è fatto carne, è entrato nella storia, «per fare, o Dio, la tua volontà».

È per volontà del Padre che il Figlio si fa ‘uno di noi’. È per amore, per grazia che la luce di Dio risplende nella storia dell’umanità.

Questo amore porterà Gesù a dare la vita per noi, a ‘sacrificare’ la sua vita per noi, che non lo abbiamo riconosciuto. Questo dono diventa per noi un appello continuo a rispondergli con riconoscenza, con gratitudine!

Prepararsi al Natale è vivere questa attesa grata del dono di Dio, che entra nella nostra storia, facendosi carne, perché noi siamo santificati, possiamo partecipare alla sua grazia, al suo amore per noi, senza mai perdere la speranza.

Anche nel Vangelo di Luca si parla dell’attesa di Dio.

Nella scena, molto bella, che abbiamo ascoltato oggi, ci sono due donne che si incontrano. Sono tutte e due madri, ‘in attesa’ del loro figlio. Questo ci fa pensare alla bellezza con cui ogni donna attende un figlio.

Che cosa vuol dire ‘aspettare’ un figlio? Non è un atto banale, non è una cosa scontata, ovvia. Ogni gravidanza sa un po’ di miracolo. All’origine, certo, c’è un atto dell’uomo e della donna, ma da questo scaturisce qualcosa di più grande di loro.

Quando una donna ‘aspetta’ un figlio se lo sente crescere pian piano nel grembo, riconosce mille segni della sua presenza. Ma lo aspetta senza conoscere il suo volto, senza potersi immaginare chi sarà questo bambino.

È l’attesa di un altro, che senza di te non sarebbe venuto al mondo, ma che ogni genitore vive come un dono ricevuto, perché va al di là delle sue forze e possibilità.

Quello che avviene per ogni madre – e anche per ogni padre – avviene in modo sublime per Maria, la Madre di Dio. Quel bambino che si porta in grembo è un dono che lei ha ricevuto da Dio, al di là delle sue forze, dei suoi meriti. Quel figlio è ‘grazia’.

Chissà che cosa avrà pensato Maria in questo tempo di ‘attesa’?

Il Vangelo ci apre uno squarcio, molto bello, l’unico, per parlarci di questa attesa di Maria.

Non è un’attesa passiva. Non è l’attesa di chi aspetta tutto dall’alto. È un’attesa attiva. Questo sembrerebbe quasi una contraddizione.

L’attesa è la disposizione di chi è tutto ‘teso’ ad altro, a qualcosa che arriva e che non dipende da lui. È l’attesa di qualcuno che sopraggiunge e ti sorprende. Colui che attende non è ‘padrone’ di colui che arriva. Anzi, non può che rimanere in attesa, non può che lasciarsi sorprendere, non può che essere pronto a non essere mai pronto.

L’altro arriva quando meno te lo aspetti. È lui che arriva. È lui che si rivela.

Così è per Maria. Ricevuto l’annuncio dell’angelo, Maria sente crescere in sé il dono di Dio. Ma questo dono diventa per lei una chiamata a rispondere.

L’attesa si fa attiva. «Si alzò e andò in fretta».

Si mette in cammino, verso sud, da Nazareth verso la Giudea, «una città di Giuda». Affronta le fatiche di un viaggio, lei che è nei primi tempi della gravidanza. Questo viaggio lo compie con Gesù, quasi, (già) gustando la sua dolcissima presenza.

Giorni e giorni di viaggio. Giorni di fatica, ma giorni di grazia. La grazia non cancella la fatica. Anzi, la grazia spinge Maria alla fatica del cammino …

È questo figlio, che si porta in grembo, che la spinge ad andare dall’anziana parente Elisabetta. È l’angelo del Signore che le ha ‘dato’ questo segno di Dio.

Entrando «nella casa di Zaccaria», finalmente, è Maria che saluta Elisabetta.

Non sappiamo che cosa abbia detto Maria, possiamo solo immaginarlo. Probabilmente è stato un saluto molto semplice. Il saluto di una ragazza nei confronti di una donna anziana, molto avanti negli anni, però – miracolosamente – incinta come lei.

Quello su cui, però, insiste il Vangelo è la risposta di Elisabetta al saluto di Maria.

E anche noi possiamo metterci nei panni di Elisabetta. In fondo, quando diciamo l’Ave Maria, a questo siamo invitati: metterci nei panni di questa donna anziana, che saluta la madre e accoglie Gesù.

Il Vangelo di Luca dice che Elisabetta «fu colmata di Spirito Santo».

In effetti Elisabetta non sapeva nulla di Maria. Non sapeva che era incinta, né come era rimasta incinta, né di chi era incinta. Eppure è Dio che la colma di sé e … capisce.

Il Vangelo dice che è il figlio che porta in grembo, già al sesto mese, che sussulta in lei, con gioia: «il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo». È la gioia di Giovanni che riconosce, per primo, Gesù che gli viene incontro.

La gioia del figlio diventa la gioia della madre. La gioia si comunica. È la gioia messianica. La gioia di un’attesa che, finalmente, è compiuta.

Elisabetta proclama Maria «benedetta» perché è «benedetto il frutto del tuo grembo!». Maria è grande, benedetta da Dio, perché è Dio che l’ha benedetta, l’ha colmata di grazia!

La grandezza di Maria, dice Elisabetta, la sua beatitudine, sta nell’aver «creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto».

È l’attesa della fede che ci rende beati, felici.

È l’attesa di chi sa che il Signore porta a compimento la sua promessa di bene per l’umanità, in Gesù!

don Maurizio



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