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Nozze ed eterologa all’estero: bimbo diventa «figlio di due donne».

cassazioneLa Cassazione, rovesciando un precedente verdetto emesso dalla Corte d’appello di Venezia, ha recentemente stabilito che un bimbo voluto da due donne sposate all’estero, concepito con fecondazione eterologa grazie agli ovociti di una delle due (e il seme di uno sconosciuto “donatore”) e portato nel grembo dell’altra, che l’ha partorito, deve essere iscritto all’anagrafe italiana come figlio delle due donne e portarne i relativi cognomi. Sulla questione e sulle pesanti conseguenze di tale decisione volentieri riproponiamo il commento di Marcello Palmieri pubblicato su Avvenire:


(…) laddove i giudici lagunari avevano ritenuto la situazione «contraria all’ordine pubblico italiano», vale a dire inammissibile alla luce dei principi fondamentali su cui è costituita la nostra società, e inaccettabile alla luce del fatto che la giurisprudenza «era granitica nell’individuare, nella diversità di sesso tra i nubendi, un requisito indispensabile per l’esistenza del matrimonio civile», la Suprema Corte sostiene di aver considerato «l’interesse preminente del minore» mentre spiega che la contrarietà dell’atto estero all’ordine pubblico – fatto che a norma del diritto internazionale ne renderebbe impossibile il recepimento in Italia – non deve essere valutata solo sulla scorta della nostra Costituzione ma anche alla luce delle dichiarazioni Onu sui diritti dell’uomo e del fanciullo, oltre che in base a quanto dispongono le convenzioni internazionali. Queste, secondo la Cassazione, sanciscono per tutti indistintamente «il diritto di sposarsi e formare una famiglia», così come «il divieto di ogni discriminazione fondata sul sesso».

Ecco il problema giuridico che ne consegue: è possibile riconoscere in Italia una pratica che il nostro Stato vieta – la Legge 40 consente infatti la fecondazione assistita, inclusa quella eterologa, solo tra coppie formate da persone di sesso diverso – in quanto realizzata all’estero? Non ha dunque più senso di esistere questo divieto? La questione è sottile, ma chiara: sostenere che un particolare divieto normativo non sia contrario all’ordine pubblico non significa, a norma del diritto, affermare che non ha ragione di esistere: semplicemente, ciò che la norma preclude non è ritenuto di fondamentale importanza. Conseguenza pratica: in Italia non lo si può fare, ma l’Italia non può fare a meno di riconoscere quella stessa cosa se attuata all’estero. Senza con ciò alcun obbligo che il divieto interno cada.

A questo punto, però, il discorso s’allarga con un ulteriore – e fondamentale – interrogativo: è condivisibile che la Suprema Corte ritenga secondaria una norma strettamente connessa all’esistenza, al nome e alla crescita di un bimbo? Non tutti gli ermellini devono pensarla così, se è vero che la stessa Cassazione, nel novembre del 2014, proprio nell’interesse del minore ha bloccato il riconoscimento di un’altra violazione della legge 40 commessa all’estero: la maternità surrogata, vale a dire quel reato che, proprio con le stesse argomentazioni della sentenza depositata ieri, molte corti stanno sdoganando.

Fonte: Avvenire



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