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Se l’amore al prossimo è la carne dell’amore a Dio.

Siamo forse troppo abituati al «grande comandamento», per ri-scoprirne ogni volta la meraviglia e l’incanto. Il rischio, allora, è di ascoltare il Vangelo di oggi come qualcosa di scontato, di già conosciuto, già visto.


In questo modo la Parola rischia di scorrere via dalla nostra vita, come l’acqua sopra un tessuto impermeabile.

Tutto nasce da una domanda.

È un fariseo che si rivolge a Gesù, «un dottore della Legge». Quest’uomo è spinto, ad andare da Gesù, dal suo gruppo per metterlo «alla prova». Vuole vedere che cosa pensa Gesù, vuole vedere se davvero conosce la Legge, probabilmente per contestarlo e per fargli fare una brutta figura.

Alla fine, dopo la risposta di Gesù, questo dottore della Legge, fariseo, non dice nemmeno una parola. L’evangelista non ci riporta nulla della sua reazione. Certo, questo fariseo, in quella circostanza, non ebbe nulla da ridire.

La risposta di Gesù è semplicemente affascinante.

La Legge era come un grande corpo, una immensa raccolta di leggi, norme, insegnamenti, istruzioni. I farisei ai tempi di Gesù ne avevano raccolte 613, di queste prescrizioni, e le avevano fatte diventare come una grande ‘siepe’ che li proteggeva dal male e li racchiudeva – o li rinchiudeva? – in un bel giardino, quasi un’oasi di giustizia e di purità, davanti a Dio.

Poco dopo, al capitolo 23, Gesù si scaglia in un lungo discorso, con grande durezza, contro l’ipocrisia dei farisei e degli scribi. Ne ascolteremo una parte la prossima domenica. Oggi, le parole di Gesù ‘brillano’, in modo luminoso come un altissimo insegnamento di vita.

Non inventa nulla di nuovo, con queste parole, Gesù. Però va a ‘pescare’, nel grande corpo della Legge di Dio, il suo ‘cuore’, ciò che sta al centro e si diffonde per tutto il corpo, dando vita a ogni precetto, consiglio, comandamento.

Il «dottore della Legge» chiede a Gesù quale sia il «grande comandamento». Chiede, dunque, non quale sia il “più” grande. No. Chiede quale è il «grande comandamento», perché questo comandamento è ‘dentro’ tutti gli altri, come la linfa in una pianta o il sangue nel nostro corpo.

Gesù risponde a questo fariseo citando due comandamenti, uno dal Deuteronomio e l’altro dal Levitico. Di uno dice che «è il grande e primo comandamento» e dell’altro che è «il secondo» «simile al primo».

Gesù intreccia tra loro questi due comandamenti, in modo tale che, in realtà, ne risulti uno solo e in un modo così unito che è impossibile separarli o scinderli uno dall’altro.

 «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente».

Questa è una delle pochissime volte, in tutta la Scrittura, in cui si dice che noi dobbiamo ‘amare’ Dio. Di solito la Parola di Dio ci dice che è Dio che ama noi. A noi, solitamente, la Scrittura chiede di fidarci di Dio, di affidarci a Lui, di confidare in Lui. Ci chiede di ‘poggiare’ su di Lui la nostra vita, con abbandono e gratitudine.

In effetti, questo è il senso dell’«amerai il Signore tuo Dio»: è un amore di risposta, un atto di affidamento e di fiducia, che nasce come riconoscimento grato del bene che Dio opera a nostro favore.

Per questo è un «comandamento» un po’ strano. Non è un ‘dovere’, un obbligo, una costrizione. Non è nemmeno una conquista, a partire da noi e con le nostre forze. No! È una risposta grata, che nasce dall’interno di una relazione, di una storia, di un’alleanza, in cui Dio si mostra benevolenza, tenerezza, misericordia nei nostri confronti.

È un amore responsabile, quello che ci è chiesto.

Un’altra caratteristica di questo amore riconoscente è che prende la totalità di noi stessi: cuore, anima, mente non sono tre parti distinte della nostra vita, ma sono tre modi per dire il tutto del nostro essere.

Nel nostro agire, nel nostro pensare, nel nostro sentire, nei nostri moti più segreti e nascosti, Gesù ci chiede di fidarci e di amare Dio, come il nostro tesoro prezioso e unico.

Il secondo, che è «simile al primo», è: «amerai il tuo prossimo come te stesso».

La fiducia, l’amore, l’abbandono in Dio, nel suo amore sorprendente, si incarna nella storia delle nostre relazioni con gli altri. Sarebbe un inganno pensare di poter amare Dio, fidarci di Lui, senza che questo prenda carne, concreta, senza che questo entri nelle sfumature e nel tessuto della nostra vita.

Certo, naturalmente, è vero anche il reciproco: amando il nostro prossimo, noi amiamo Dio. Se qualcuno non ‘credesse’ in Dio, almeno a parole, se qualcuno, per tante ragioni, fosse fuori dalla Chiesa, ma amasse davvero il suo prossimo, questi, in realtà, ama anche Dio, nel suo fratello.

Dunque l’amore al prossimo è la carne dell’amore a Dio e l’amore a Dio è lo spirito, è la verità del nostro amore reciproco.

La prima lettura, dal libro dell’Esodo, ci dà alcuni sprazzi di luce, per aprirci gli occhi su chi è il nostro prossimo: l’Esodo ci parla «del forestiero», «della vedova», (donna povera, senza ‘stipendio’ e sola), «dell’orfano», e cioè del bambino che non ha più chi si prenda cura di lui.

Queste sono tre categorie ‘tipiche’ dell’Antico Testamento. Indicano il prossimo più povero, quello che è poco considerato, quello che ha più bisogno ed è emarginato.

Possiamo noi dire, anche oggi, che noi amiamo questi prossimi «come noi stessi»?

E poi l’Esodo («così dice il Signore») parla anche dei rapporti con «qualcuno del [tuo] popolo»: «l’indigente», il povero, colui che ti chiede un prestito e che, per il momento, non ha di che restituirtelo.

Sono esempi che oggi andrebbero incarnati e dovrebbero essere tradotti nella realtà complessa dei nostri giorni.

Chi è il forestiero oggi? Chi è l’orfano, chi è colui che è solo, chi è il povero?

Ma la cosa più straordinaria è che Gesù, citando la Legge, dice a ciascuno di noi di amare il suo prossimo «come te stesso».

Notate, Gesù non ci chiede di «amare» il nostro prossimo più di noi stessi. No!

Ci chiede di amarlo «come» noi stessi. Non c’è nessun conflitto tra l’amore per sé e l’amore per l’altro. È solo a partire dall’esperienza dell’essere amati che noi possiamo scoprire che cosa significhi, concretamente, amare l’altro.

Solo chi è amato sa amare.

Tanti di noi fanno tanta fatica ad amare perché sono stati poco amati o magari addirittura hanno la sensazione di non essere stati (mai) amati.

L’amore ricevuto diventa un’immensa forza per riamare.

Chi ama è felice di amare, perché è grato per l’amore ricevuto.

L’amore per l’altro non ci toglie nulla, anzi moltiplica il dono ricevuto e lo fa ‘fruttare’, lo rende fecondo.

L’amore ricevuto e donato, ci fa respirare a pieni polmoni. Dà gusto e sapore alla nostra vita. Ed è in questo amore reciproco che prende forma e si fa carne l’amore per il nostro Dio, un amore grato.

È solo a partire da questa riconoscenza che anche noi possiamo amarci gli uni gli altri.

don Maurizio



L’Associazione LA PIETRA SCARTATA da anni accompagna e supporta le famiglie nella vocazione a prendersi cura dei bambini abbandonati o temporaneamente allontanati dalla propria famiglia, conservando o restituendo loro la dignità di figli, mentre si rende testimonianza dell’Amore di Dio nell’accoglienza familiare affidataria o adottiva, secondo il carisma proprio del sacramento matrimoniale, vissuto nell’ambito fecondo delle relazioni coniugali.


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