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Tenere fisso lo sguardo su Gesù

La riflessione di don Maurizio Chiodi prende spunto dalle letture proposte dalla liturgia per la XIX domenica del tempo ordinario, dal Vangelo secondo Luca (Lc 12,49-53), dai brani tratti dal libro del profeta Geremìa (Ger 38,4-6.8-10) e dalla lettera agli Ebrei (Eb 12,1-4).

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Oggi, nella seconda lettura, la lettera agli Ebrei riporta un’espressione molto forte e molto bella: «corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento».
Ecco, questo è ciò che noi dovremmo fare nella nostra preghiera e, sempre, nelle nostre giornate.
Siamo credenti proprio perché abbiamo scelto di tenere ‘fisso’ lo sguardo in Gesù. Per questo ascoltiamo la sua Parola, cerchiamo il suo volto, seguiamo le sue tracce, ci fidiamo della sua voce.
Oggi, la sua Parola, la Parola di Dio, ci presenta un aspetto che, a prima vista, ci può apparire sconcertante.
Partiamo da questo Vangelo di Luca. Ci sono due passaggi.

Il primo aiuta a comprendere il senso della seconda domanda. Se non partiamo dalla prima parola di Gesù non possiamo comprendere il significato di quella successiva.
La prima parla di ‘fuoco’ e di ‘battesimo’ e di ‘angoscia’. «Sono venuto a gettare fuoco sulla terra». Il fuoco, nella Scrittura, è uno dei simboli per dire Dio, come il roveto ardente di Mosè o i tuoni e i fulmini della presenza di Dio al Sinai. In questo senso Gesù è venuto sulla terra «a gettare fuoco»: la presenza di Dio coincide con la presenza di Gesù. È Gesù stesso il fuoco di Dio, la sua cura, la sua sollecitudine, la sua grazia, la sua misericordia per noi.
Ma questa grazia ha un ‘caro prezzo’. È il ‘prezzo’ del battesimo di Gesù.
Lo sappiamo, battesimo è una parola greca che significa, semplicemente, ‘immersione’. Qui Gesù parla di un ‘battesimo’ nel quale egli sarà battezzato, immerso. È il battesimo della sua Pasqua: il suo patire, il suo morire, il suo riemergere in una pienezza definitiva di vita, quella del Risorto.
Gesù parla di angoscia: «e come sono angosciato finché non sia compiuto!».
Non è stato un cammino facile, per Lui, quello verso Gerusalemme. Come, fatte le debite proporzioni per ciascuno di noi, anche per noi la vita non è facile. È un cammino, con le sue angosce, le sue fatiche, gli imprevisti, le difficoltà.
Perché Gesù è angosciato?
Perché il suo patire, il suo morire sono il frutto dell’opposizione e del rifiuto.
Gesù muore per coloro che lo uccidono, rifiutandolo. È un atto di grazia infinita.

La seconda lettura diceva che egli, alla sua morte, «ha sopportato contro di sé una così grande ostilità dei peccatori», cioè nostra! Gesù patisce questo rifiuto, patisce questa ostilità. Ma rimane sulla croce per dire che la grazia è più grande del nostro rifiuto.
Anche la prima lettura parla del destino del profeta Geremia: un uomo che viene rifiutato. I capi del popolo dicono al re che «quest’uomo non cerca il benessere del popolo, ma il male».
Questa gente confondeva il bene con il benessere, identificandoli. Certo, bene e benessere non sono in opposizione e non sono nemmeno separati, eppure il bene è più del benessere. Quante volte per noi, il cercare il bene ci chiede di affrontare disagi, difficoltà, resistenze, opposizioni!
La parola di Geremia dava fastidio, perché era una parola che diceva la Parola di Dio e questa, a volte, è una ‘musica’, dura e difficile per le nostre orecchie.
Così quegli uomini decidono di uccidere Geremia … anche se poi il profeta si salva dalla morte terribile che avevano progettato per lui, a motivo della ‘compassione’ di uno straniero.

Non sarà così per Gesù. Nessuno avrà ‘compassione’ per Lui quando sarà là, sulla croce, innalzato dinanzi ai nostri occhi a rivelare un amore che ‘sta’, fino alla fine, fino in fondo.
Allora possiamo comprendere anche la seconda domanda del Vangelo di oggi: «Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione».
Questa è una parola che ci potrebbe confondere se non, addirittura, scandalizzare. Ma come? Gesù non ci ha detto Lui stesso – e noi lo ripetiamo nella liturgia, in ogni celebrazione eucaristica! – che Lui è venuto a donarci la sua pace? «Vi lascio la pace, vi do la mia pace…». La pace (shalom) è il bene che Dio porta sulla terra.

E perché qui, ora, Gesù dice di non essere venuto a portare pace? Gesù è venuto, forse, a portare guerra, intolleranza, divisioni, odio? Allora davvero la religione dei suoi discepoli diventa occasione di guerre, violenze?
Non è certo questo il senso della Parola di Gesù!
Eppure, sì, questa sua Parola ci chiede di superare una visione ‘irenica’, paciosa, direi caricaturale, della nostra fede. Come se il cristiano fosse un bonaccione, che cerca semplicemente ‘l’armonia’ nelle relazioni umane, cercando di andare d’accordo con tutti, a qualsiasi prezzo.
Con qualcuno, se fosse così, si dovrebbe necessariamente mentire!
La divisione che Gesù dice di essere venuto a portare è il frutto della decisione per Lui. Gesù non ci chiede di restare ‘neutrali’, o di tacere di fronte alle ingiustizie o di essere conniventi con il male, anche solo per il nostro silenzio.
Gesù ci chiede di essere responsabili dinanzi alla grazia che Egli ci annuncia.
‘Rispondere’ all’amore del Signore, spesso, è difficile, perché ci si espone alle incomprensioni e alle ostilità di chi lo rifiuta.
Questo non significa affatto che, in modo dualistico, noi dobbiamo pensare che da una parte ci sono i buoni, che saremmo noi cristiani, e dall’altra i cattivi, che sarebbero quelli che dicono di non credere in Gesù. Fosse così semplice e facile! Non possiamo cadere nella trappola degli ‘schieramenti’, delle ‘tifoserie’.
A volte tra noi cristiani si nascondono gli ipocriti e, a volte, tra chi non è credente si nascondono degli uomini buoni, capaci di cura, di solidarietà, di fraternità.
A noi che siamo credenti, Gesù chiede di deciderci per Lui.
Accogliere la sua grazia per noi, significa riconoscere che i primi peccatori siamo noi. I primi ad essere ‘graziati’, oggetto’ della sua misericordia, siamo noi.
Di questo ci è chiesto di essere testimoni. Per questo il credente è tenace, perfino testardo, offrendo la sua testimonianza di quella grazia dell’amore che ha portato Gesù in croce.
Questo non ci chiede affatto di essere scontrosi o arroganti o presuntuosi.
Ci chiede di essere testimoni reali di un amore che è tanto bello quanto difficile, perché amore è sempre ‘a caro prezzo’.
Amare significa essere disposti a pagare di persona, combattere, anche contro il nostro egoismo, per portare la pace di una fraternità universale, annunciata da Gesù, perché tutti siamo figli di un unico Padre!

don Maurizio



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