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VI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Prima Lettura Lv 13,1-2.45-46 Dal libro del Levìtico
Il Signore parlò a Mosè e ad Aronne e disse: «Se qualcuno ha sulla pelle del corpo un tumore o una pustola o macchia bianca che faccia sospettare una piaga di lebbra, quel tale sarà condotto dal sacerdote Aronne o da qualcuno dei sacerdoti, suoi figli. Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto; velato fino al labbro superiore, andrà gridando: “Impuro! Impuro!”. Sarà impuro finché durerà in lui il male; è impuro, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento».


Seconda Lettura 1Cor 10,31 – 11,1 Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi
Fratelli, sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio. Non siate motivo di scandalo né ai Giudei, né ai Greci, né alla Chiesa di Dio; così come io mi sforzo di piacere a tutti in tutto, senza cercare il mio interesse ma quello di molti, perché giungano alla salvezza. Diventate miei imitatori, come io lo sono di Cristo.

Vangelo Mc 1,40-45 Dal Vangelo secondo Marco
omelia-ven-13In quel tempo, venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi purificarmi!». Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, sii purificato!». E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato. E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito e gli disse: «Guarda di non dire niente a nessuno; va’, invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come testimonianza per loro». Ma quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti; e venivano a lui da ogni parte.

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Un uomo posseduto da uno spirito impuro, poi la suocera di Pietro e poi questo uomo lebbroso, oggi. E’ il terzo miracolo raccontato nel Vangelo di Marco, oltre al ricordo di tutti i malati e gli indemoniati che Gesù aveva guarito davanti alla porta di Cafarnao.
A ciascuno di questi prodigi corrisponde un tipo particolare di sofferenza umana, quasi a volerci suggerire che Gesù incontra il dolore dell’umanità in tutte le sue sfaccettature.

Nell’antichità, ai tempi di Gesù, la lebbra era considerata forse la peggiore delle malattie. Il lebbroso era considerato un morto vivente. Non apparteneva più alla comunità dei vivi. Era emarginato, isolato, perdeva ogni ruolo sociale. Non poteva più entrare in contatto con nessuno.
Questa malattia terribile, che deformava il corpo, il volto, le mani, i piedi, con escrescenze e piaghe, modificava anche tutte le relazioni di chi veniva colpito. Essendo la sua una malattia contagiosa, il lebbroso era considerato un portatore di morte.

Non solo, come se non bastasse tutto questo, la lebbra era caricata anche di un significato religioso. Non era una colpa morale, ma una ‘impurità’.
Il lebbroso non era considerato un peccatore, però non poteva partecipare al culto.
All’origine di tutto questo c’erano sicuramente misure sanitarie, ma non solo.
Lo abbiamo ascoltato nel libro del Levitico: chi veniva colpito dalla lebbra era escluso dal popolo, dal tempio, dal culto. Era il sacerdote che doveva sancire il suo isolamento: «Sarà impuro finché durerà in lui il male; è impuro, se ne starà solo». Lui stesso, quando camminava per la strada doveva gridare: «”Impuro! Impuro!”», perché chi per caso non lo avesse riconosciuto doveva fuggire dinnanzi a lui.
Tutto questo è, in parte, difficile da capire per noi.
Certo, comprendiamo bene la necessità di ‘isolare’ il lebbroso. Ma, poiché la malattia non era guaribile, all’isolamento non si accompagnava alcuna cura. Isolamento significava abbandono totale.
In più c’era questa macchia dell’impurità. Certo, la lebbra non era sempre e automaticamente sinonimo di colpa, e però molti la collegavano al peccato. In ogni caso, il lebbroso portava nel suo corpo lo stigma, il segno obbrobrioso del male. Rimaneva un’ambiguità pericolosa.

Dobbiamo pensare a tutto questo per comprendere il senso profondo dell’incontro tra Gesù e quest’uomo lebbroso.
«Venne da Gesù un lebbroso». Quest’uomo si avvicina a Gesù, pur mantenendosi a una certa distanza. «Lo supplicava in ginocchio e gli diceva: “Se vuoi, puoi purificarmi!”». Il verbo è all’imperfetto e questo dice l’insistenza con cui quest’uomo supplica Gesù. E lo fa in ginocchio.
Nelle parole, nei gesti di questo malato si esprime tutta la sua sofferenza, forse la sua disperazione.
Quest’uomo non ha più nessuna speranza nella vita.
Per questo, dall’abisso del suo dolore, invoca Gesù. Sa che lui potrebbe ‘purificarlo’, cioè guarirlo, liberarlo da quel male oscuro e terribile che, senza ucciderlo, gli toglieva la vita!

La risposta di Gesù è sorprendente.
E’ scandita da quattro verbi, quattro azioni, in rapida successione, una dopo l’altra. Sono tre gesti e una parola.

«Ne ebbe compassione». E’ bellissima questa prima reazione ‘affettiva’ di Gesù.
Gesù com-patisce con quest’uomo. E’ profondamente toccato dal suo dolore. Non è indifferente. Non è nemmeno ‘superiore’, come uno che guarda dall’alto in basso, come quando noi diciamo ‘poverino!’. Non fugge. Sta accanto a quest’uomo, con lui, al punto da essere ‘afflitto’ dal suo dolore.

Poi, però, ancor più, il Vangelo dice: «tese la mano, lo toccò».
Sono due passaggi che meritano di essere ‘contemplati’ profondamente.
In quel ‘tendere la mano’ c’è l’effetto immediato e bello della compassione.
Gesù si avvicina, tendendo la mano. Si fa incontro a quest’uomo. Vuole stabilire con lui una relazione, come a cercarlo.
In questi gesti di Gesù c’è la carne di Dio: Dio che si commuove (com-muove) per noi. Dio che ci tende la mano, quasi a spezzare la nostra solitudine, a infrangere il nostro dolore.

E, poi, c’è il terzo gesto: «lo toccò».
Siamo qui al momento culminante: la mano di Gesù è sul corpo di quell’uomo, un corpo malato, sofferente, un corpo ripugnante, che ispirava spontaneamente allontanamento, fuga.
E’ un gesto bellissimo quello di Gesù: si espone al contagio, lui stesso, al di là della paura.
Non solo: è un gesto che infrange la Legge, che proibiva di toccare e di avere rapporti con queste persone.
Dopo il miracolo compiuto con l’uomo posseduto da uno spirito impuro, in giorno di sabato, questo nuovo miracolo di Gesù sembra non rispettare la Legge, la Torah.
Era un uomo coraggioso e libero, Gesù.
Lui, però, non infrange la Legge, il Levitico. Anzi, la porta a compimento.
Infatti, subito dopo, si preoccupa di inviare quest’uomo, guarito, al sacerdote, perché questi possa constatarne la guarigione e l’uomo lebbroso possa essere purificato, secondo la Legge di Mosè. Gesù è un ebreo, fino in fondo; è un uomo religioso, che ama la Legge di Dio.
Ma lui stesso è il compimento della Legge, che era stata donata da Dio al suo popolo per camminare sulla via della salvezza. Con il gesto di ‘toccare’ quell’uomo lebbroso, Gesù rivela fino in fondo chi è il Dio di Israele, un Dio che non ha paura del male dell’uomo, un Dio che è compassione, prossimità, forza strepitosa di amore, che si fa carico del nostro patire.

Poi c’è la parola finale, che sancisce la verità dei gesti di Gesù: «Lo voglio, sii purificato!».
Non è Gesù che, toccando il lebbroso, viene contagiato. E’ lui che, toccandolo, lo purifica dal suo male, lo libera, lo guarisce.
Quell’uomo non poteva partecipare al culto, ebbene è Gesù che lo accoglie. Escluso, apparentemente, dal rapporto con Dio, ora è Dio che lo tocca e lo salva!
E’ una scena meravigliosa.
Tutto questo però sembra contrastare in modo altrettanto sorprendente con quanto segue immediatamente: «ammonendolo severamente, lo cacciò via subito e gli disse: “Guarda di non dire niente a nessuno” ».
Perché Gesù fa così?
Questo suo modo di agire sembrerebbe smentire quello che ha fatto finora. Ma non è così.
L’evangelista sottolinea, in questo modo, come sia facile fraintendere gesti e parole di Gesù.
E questo vale anche per noi. E’ facile scambiarlo e usarlo solo come un guaritore, senza comprendere chi egli è: la compassione di Dio, la mano di Dio che tocca l’uomo, me, e mi salva!

Così il racconto si conclude con la straripante gratitudine di quest’uomo che non può contenere in sé la gioia per essere stato guarito.

Possiamo ‘contemplare’ questa scena e, per quanto ci è possibile, imparare lo stile di Gesù, nei confronti di chi soffre, facendo nostra la parola di Paolo, nella seconda lettura: «Diventate miei imitatori, come io lo sono di Cristo».

don Maurizio

15 febbraio 2015



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