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La passione di Dio per l’uomo.

L’alleanza con l’umanità, in Noè, la prova di Abramo, oggi le tavole dell’alleanza, dal libro dell’Esodo. Così continua il nostro cammino quaresimale verso il compimento della Pasqua.


Siamo sul sentiero di quel Cristo crocifisso, di cui parla Paolo ai Corinzi, dicendo che è «scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani». Sì, perché la croce di Gesù, un ‘Dio crocifisso’ è quanto di più stolto un greco potesse pensare e, per un giudeo, è un autentico scandalo, un inciampo, un ostacolo addirittura!

Ma, dice San Paolo, questa (apparente) stoltezza e debolezza di Dio nascondono la sapienza e la forza di un Dio che, per grazia, ci ha amato fino alla fine, fino in fondo!

Ci ha amato nella storia, questo Dio.

Per questo, nella prima lettura, oggi abbiamo ascoltato la lettura delle ‘tavole della Legge’.

Sapete che queste si chiamano anche ‘tavole dell’alleanza’, perché sono state donate dal Signore Dio al popolo di Israele nella cornice dell’alleanza, gratuita, stipulata sul monte Sinai. L’alleanza è data per grazia e tuttavia attende una risposta, un consenso, un impegno.

La Legge del Decalogo, letteralmente ‘dieci parole’ e non dieci comandamenti – ma sono comunque parole ‘impegnative’ – è il documento di questo solenne impegno per Israele: questa Legge è insieme una grazia, data da Dio, e un compito, della libertà del popolo di Israele.

È noto che le tavole della Legge sono due.

Ci sono i primi tre comandamenti – che secondo un’altra numerazione sarebbero quattro! – che riguardano la relazione con Dio e i secondi sette comandamenti – secondo l’altra numerazione sei – che riguardano le relazioni umane fondamentali, all’interno di una ’alleanza’ di un popolo (o cultura).

Quasi tutti questi comandamenti sono negativi, ma non c’è in questo nessun ‘oscurantismo’, come se il Signore si divertisse a costellare il sentiero della nostra vita di proibizioni!

Al contrario, il significato di queste proibizioni è molto positivo.

Anzitutto perché ci mettono in guardia dal male, da tutto ciò che ci farebbe perdere la libertà … perché questo è il male: schiavitù, prigionia di un egoismo che si chiude in se stesso.

Poi, ancor più, la forma negativa del precetto ci evita di cadere nella tentazione di chi si considera debitore dinanzi a Dio, come quando diciamo: “mi hai chiesto questo, l’ho fatto e adesso tu cosa mi dai?”. Se ci è detto che cosa ‘non fare’, ma non ci è detto ‘cosa fare’, allora non potremo mai presentarci dinanzi a Dio vantando qualche diritto. Saremo sempre debitori.

Non dicendoci che cosa fare, poi, il Decalogo ci chiede di cercare noi il bene, ‘il bene possibile’, come dice papa Francesco, attraverso il discernimento della nostra coscienza.

La Legge, già nell’Antico Testamento, e in modo compiuto nella Parola di Gesù, ci chiede di cercare ‘tutto il bene possibile’, amando il Signore con ‘tutto’ noi stessi e il nostro prossimo ‘come’ noi stessi, fino al nostro nemico.

Anche così, nessuno di noi potrà vantarsi dinanzi a Dio: “Ho fatto tutto! Adesso dammi quello che mi spetta”. Non avremo mai fatto tutto quello avremmo dovuto, saremo sempre in debito di amore.

Infine, è bello notare che le ‘dieci parole’ cominciano con la memoria di quanto «il Signore, tuo Dio», ha fatto per il suo popolo Israele: «ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile».

Questo significa che, all’origine del comandamento, c’è una storia di grazia.

A questa grazia, a questo dono appartiene il comandamento stesso.

La Legge, dunque, non è un peso faticoso, non è un obbligo «servile», al contrario è una legge di libertà, perché custodisce un rapporto grato e riconoscente verso il Signore, attraverso la buona qualità dei rapporti reciproci.

Tutte le parole che riguardano la relazione con Dio chiedono al popolo dell’alleanza di non dimenticare tutto ciò che il Signore ha fatto per il popolo di Israele.

Per questo il Signore chiede di essere riconosciuto come il Dio unico: «Non avrai altri dèi di fronte a me», dice il primo comandamento e quante volte anche noi siamo tentati di fabbricarci degli idoli, di dare a Dio la nostra immagine, di costruirci un’idea nostra di Dio!

Per questo il Signore chiede a Israele, che conosce il nome di Dio, di non chiamarlo «invano», abusando della sua familiarità, pretendendo da Lui, dal Signore, che soddisfi i propri egoismi.

Per questo la Parola sul sabato chiede di ‘santificarlo’, cioè di distinguerlo da tutti gli altri giorni lavorativi, per cessare da ogni lavoro, per fare memoria della bellezza dell’opera del Signore, che risplende nel creato e in tutto l’universo.

Questa ‘unicità’ di Dio, questa sua irriducibilità ai nostri piccoli e miseri schemi umani, si incarna poi in rapporti buoni che le dieci parole ci chiedono con forza liberante: non pretendere di ‘possedere’ l’altro, di ucciderlo, non tradire la fiducia di tua moglie e di tuo marito, con l’adulterio, non ‘rapinare’ per cieco egoismo i beni dell’altro, non dire parole menzognere, specialmente nel tribunale, «contro il tuo prossimo», «onora tuo padre e tua madre», anche quando non ti sembrano ‘degni’ del tuo onore. Onorali, come Dio, perché essi ti hanno dato l’impagabile dono della vita e sono il segno e la testimonianza della promessa di Dio.

E, infine, con l’ultimo – o gli ultimi due – comandamento, la Legge di Dio non va affatto ‘contro’ il nostro desiderio («non desidererai…»), ma al contrario ci mette in guardia dalla trappola di un desiderio che diventa schiavo delle sue voglie e che dimentica che è nel bene reciproco, tra me e l’altro, che ogni nostro desiderio trova il suo compimento, la sua felicità.

È così che arriviamo alla splendida scena del Vangelo di Giovanni.

Al centro di questo brano, non c’è affatto uno ‘scatto d’ira’ di Gesù, ma un atto simbolico, carico e ricco di un profondo significato. Non è ‘ira’, ma è ‘zelo’, questo modo di agire del Signore Gesù.

Non può sopportare che il tempio sia diventato «un mercato!», un luogo di scambio di beni, pure necessari. Il tempio, dice Gesù, è la «casa del Padre mio».

Così, con una parola, egli rivela il senso del suo gesto, il senso della sua stessa Presenza.

Non a caso, ai Giudei che gli chiedono un segno che autorizzi ciò che ha fatto, Gesù risponde con il segno, definitivo, della Pasqua: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». Naturalmente i suoi interlocutori non comprendono queste sue parole.

Ma, dopo la sua Risurrezione, «i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero».

Credettero e capirono: «egli parlava del tempio del suo corpo».

La carne di Gesù è il tempio di Dio, è la promessa definitiva di Dio nella storia dell’umanità, è l’alleanza sigillata nel suo sangue, cioè il dono della sua vita, per amore, per grazia.

L’alleanza di Dio trova compimento nella Pasqua di Gesù, perché noi viviamo come un popolo libero, un popolo di ‘liberi’ (in latino ‘libero’ significa ‘figlio’) e dunque di fratelli, chiamati a libertà, per grazia.

Questa è la passione di Dio per l’uomo.

don Maurizio



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