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S.S. TRINITA’ – 15 giugno 2014

Prima Lettura dal libro dell’Èsodo (Es 34,4-6.8-9)
In quei giorni, Mosè si alzò di buon mattino e salì sul monte Sinai, come il Signore gli aveva comandato, con le due tavole di pietra in mano.
Allora il Signore scese nella nube, si fermò là presso di lui e proclamò il nome del Signore. Il Signore passò davanti a lui, proclamando: «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà».
Mosè si curvò in fretta fino a terra e si prostrò. Disse: «Se ho trovato grazia ai tuoi occhi, Signore, che il Signore cammini in mezzo a noi. Sì, è un popolo di dura cervìce, ma tu perdona la nostra colpa e il nostro peccato: fa’ di noi la tua eredità».


Seconda Lettura dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi (2 Cor 13,11-13)
Fratelli, siate gioiosi, tendete alla perfezione, fatevi coraggio a vicenda, abbiate gli stessi sentimenti, vivete in pace e il Dio dell’amore e della pace sarà con voi.
Salutatevi a vicenda con il bacio santo. Tutti i santi vi salutano.
La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi.

Vangelo dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 3,16-18)
In quel tempo, disse Gesù a Nicodèmo: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna.
Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui.
Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio»
.

 


omelia-4Dopo la festa della Pentecoste e la fine del tempo pasquale, oggi celebriamo la solennità della S.S. Trinità di Dio.
Questa festa è come l’eco e il riverbero della Pasqua di Gesù. Noi cristiani non siamo arrivati a pensare la Trinità di Dio a partire dai nostri sforzi e dai nostri ragionamenti, ma a partire dalla rivelazione di Gesù, anzi a partire dal dono di Dio in Gesù.

Parlando con Nicodemo, in quella memorabile notte, Gesù disse a questo fariseo che era sinceramente affascinato dalle sue parole: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito». Ecco che cosa ci rivela, anzitutto, la Trinità: che Dio è un amore sovrabbondante, una grazia che si riversa su di noi, come inondandoci e ricolmandoci di ogni dono.
Nelle parole di Gesù – «Dio ha tanto amato… da dare…» – è importante e decisivo proprio quel «dare»: dare significa offrire, ‘sacrificare’, donare, consegnare nelle nostre mani, affidare, fino alle ultime conseguenze. E’ l’amore che consegna e si consegna, si dona, per grazia.
E’ evidente, allora, come dice ancora Gesù nel Vangelo di Giovanni che Dio «non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui».
Non per condannare, ma per salvare.
Questo è il Dio che ci dona Gesù in se stesso: un amore che salva, non un amore che condanna. Un amore che condannasse, non potrebbe salvare.
Proprio in questo sta la gratuità di Dio: invece di ‘condannare’ il male, che è nel mondo, si fa carne, per salvare l’uomo con la grazia di un amore incondizionato, un amore che riscatta, redime, fa rinascere, proprio chi è lontano, chi lo ha tradito e rifiutato.

Questo Vangelo straordinario è annunciato già nelle parole dell’Esodo, che abbiamo ascoltato nella prima lettura. E’ un testo bellissimo, un vertice dell’Antico Testamento.
Siamo al capitolo 34 dell’Esodo che, un capitolo prima (nel cap. 32), aveva raccontato del tradimento del popolo contro Dio: avevano dato a Dio la forma di un idolo, un vitello d’oro.
Quanti idoli abbiamo anche noi oggi: il denaro, il potere, la vanità, la gloria, l’alcool, il sesso facile…
Dietro ogni idolo l’uomo non nasconde se non se stesso: l’idolo è sempre la maschera del proprio egoismo, della propria cattiveria.
E’ proprio a questo popolo peccatore, figura di tutta l’umanità, che Dio si rivela come misericordia, amore e fedeltà.

Pochi versetti prima di quelli che abbiamo ascoltato nella prima lettura, durante un bellissimo dialogo tra Dio e Mosè, questi arriva a chiedergli con incredibile pretesa: «mostrami la tua Gloria»! Cioè: “mostrami la tua Presenza, la tua Bellezza, mostrami il tuo splendore”. Mosè, infatti, dice ancora al cap. 33 dell’Esodo, parlava con Dio «faccia a faccia». Aveva con lui una intimità e una familiarità eccezionali: come uno uomo parla con un altro
E’ per questa sua confidenza che arriva a chiedergli di mostrargli la sua Gloria. Mosè vorrebbe vedere Dio.
Chissà magari qualche volta anche noi abbiamo avuto questo desiderio, di poter ‘vedere’ Dio, anche solo per un istante. In questo modo, pensiamo, si scioglierebbero tutti i nostri ‘dubbi’, le nostre incertezze, le nostre domande.
Potessimo vedere Dio!

Ma Dio risponde a Mosè: «tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo»! Questa è una caratteristica della Scrittura: Dio noi non possiamo vederlo. Possiamo, questo sì, ascoltarlo.
Perché non possiamo vederlo, almeno finché siamo vivi?
C’è qualcosa di molto profondo in questa differenza tra vedere e ascoltare.
Vedere senza ascoltare porta all’illusione di poter ‘possedere’, conoscere tutto dell’altro. In questo modo perderemmo la relazione con Dio: con la pretesa di sapere tutto di lui, di poterlo avere quasi tra le mani.
Una volta ‘visto’ Dio, potremmo rappresentarlo, una volta per sempre e così perderemmo la sua trascendenza, la sua radicale differenza da noi. Lo ridurremmo a uno dei tanti ‘oggetti’ che noi possiamo vedere, avere tra le mani.

Non è questa anche la tentazione che abbiamo nei rapporti con gli altri? ‘Vedere’ l’altro ci porta a credere di ‘sapere’ tutto di lui e così non ci accostiamo più a lui con l’umiltà e il rispetto di chi attende la rivelazione dell’altro. Ci illudiamo facilmente di conoscerlo, di sapere tutto di lui. Ascoltare, invece, significa rimanere in attesa che sia l’altro a parlarci, a rivelarsi. Ascoltare significa accettare i tempi dell’altro.
Così è per Dio.

Così, con un’immagine molto curiosa nell’Esodo, Dio dice a Mosè: “io mi rivelerò a te, ma tu potrai vedermi soltanto ’di spalle’. «Non potrai vedere il mio volto». Tu – gli dice Dio – salirai sul «monte», il Sinai, entrerai nella cavità di una rupe, una roccia; io passerò davanti a te con tutta la mia Gloria, ma io stesso ti metterò la mia mano sul tuo volto «finché non sarò passato. Poi, [dopo], «toglierò la mano» e allora tu potrai vedermi, ma di spalle, solo di sfuggita e non il mio volto”.
E’ una bellissima immagine per dire la trascendenza di Dio, che è al di là di ogni nostra immaginazione, fantasia, pretesa di vederlo, conoscerlo, stringerlo tra le nostre mani.

Ecco, il cap. 34, che abbiamo letto oggi, racconta questo meraviglioso momento dell’incontro tra Dio e Mosè. Questi sale il «monte», dopo aver tagliato le due tavole di pietra su cui Dio avrebbe di nuovo scritto le ‘dieci parole’, dopo che Mosè stesso le aveva rotte, spezzate, a motivo del tradimento di Israele.
E lì, sul monte, «il Signore [scende] nella nube», si ferma «presso di lui».
Mosè «in fretta [si curva] fino a terra», in segno di adorazione e rinunciando alla pretesa di ‘vedere’ Dio e allora il Signore Dio gli rivela il suo Nome: «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà».

Ecco, questo è il Dio di Gesù, perché Gesù è la Gloria di Dio, è il volto di Dio. Finalmente, e una volta per sempre, in Gesù Dio ci ha mostrato il suo volto.
E anche se noi non abbiamo visto il volto di Gesù, abbiamo ‘visto’ in lui il volto di Dio, perché il volto di Dio non è il volto ‘fisico’ di Gesù, ma è la storia di Gesù, nel pieno compimento della Pasqua.
Nel dono del Figlio sulla croce, nella pienezza della Resurrezione dono del Padre, nell’effusione dello Spirito, lì c’è la Trinità dell’Amore.

Dice Gesù a Nicodemo che «chiunque crede in lui», nel Figlio, «non [va] perduto, non è condannato».
Credere nell’Amore è lasciarsi salvare.
Questo è il centro di tutto: nella fede noi lasciamo che Dio ci riscatti dalle nostre infedeltà, lasciamo che lui manifesti in noi, nella nostra piccola vita, la pienezza della sua grazia.
Chi invece non si abbandona a questo amore che lo salva, finisce per perdere. Rifiutare il dono significa rinunciarci, perderlo.
Ma non è solo questione di parole. Noi accettiamo o rifiutiamo la grazia sovrabbondante dell’Amore, della Misericordia e della Fedeltà di Dio, nella nostra vita concreta, nelle relazioni di ogni giorno.

Paolo nella seconda lettura, ci dà qualche piccola indicazione: «siate gioiosi […], fatevi coraggio a vicenda, abbiate gli stessi sentimenti, vivete in pace». Credere nell’amore di Dio significa essere gioiosi, lasciare che in noi la gratitudine per Dio abbia l’ultima parola, al di là di ogni dolore e prova. Credere significa incoraggiarci a vicenda, non invece stancarci e umiliarci gli uni gli altri. Credere è vivere nella reciprocità del sentimento buono, nella qualità degli affetti reciproci.

In ciò sta la perfezione di chi si lascia amare, perdonare, e che, proprio perché sa di essere stato graziato, diventa per i suoi fratelli il segno concreto di quella grazia che egli, per primo, ha ricevuto!

don Maurizio

15 giugno 2014



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